venerdì 23 ottobre 2015

La zampa di scimmia _Ciclo di Halloween_ #I brividi del venerdì

Senza troppi preamboli, ecco a voi un racconto forse poco noto, ma non poco apprezzabile. Come al solito, buona lettura.



Fuori, la notte era fredda e umida, ma nel salottino di Lakesman Ville le persiane erano chiuse e il fuoco ardeva allegro nel camino. Padre e figlio stavano giocando a scacchi, e il primo, il quale aveva a proposito del gioco idee che comportavano innovazioni radicali, metteva spesso il suo re in situazioni così inutilmente pericolose da suscitare persino i commenti della vecchia signora dai capelli bianchi che se ne stava seduta tranquillamente accanto al camino a lavorare a maglia.
– Senti il vento, – disse White, che, dopo essersi accorto troppo tardi di aver commesso un errore fatale, cercava di escogitare il sistema migliore perché il figlio non lo notasse.
– Lo sto ascoltando, – rispose il figlio, ma continuava a osservare con la massima attenzione la scacchiera, e allungò una mano. – Scacco.
– Credo proprio che non verrà questa sera, – brontolò il padre, una mano appoggiata sul bordo del tavolo.
– Scacco, – ripeté il figlio.
– Ecco il guaio di vivere fuori mano, – blaterò White, con improvvisa e imprevista violenza; – e, fra tutti i peggiori, i più infami posti fuori mano dove vivere questo è il peggiore. Il sentiero è un pantano e la strada è un torrente. Non so che cosa ne pensino gli altri. Probabilmente, dato che ci sono due case soltanto su questa strada, sono convinti che la cosa non conti più di tanto.
– Non preoccuparti, caro, – intervenne la moglie, conciliante; – forse la prossima volta vincerai.
White alzò la testa di scatto, appena in tempo per cogliere una occhiata di intesa fra madre e figlio. Le parole gli morirono sulle labbra, e egli nascose nella barbetta grigia un sorriso colpevole.
– Eccolo! – esclamò Herbert White, mentre il cancello sbatteva forte e un pesante scalpiccío si avvicinava alla porta.
II vecchio si alzò, desideroso di fare una buona accoglienza all’ospite, si affrettò verso la porta, e lo sentirono lamentarsi con il nuovo arrivato. Anche il nuovo arrivato si lamentava, ed allora la signora White fece: – Ssst, ssst! – e tossì adagio mentre il marito entrava nella stanza, seguito da un uomo alto e massiccio, dagli occhi piccoli e tondi e dal viso rubicondo.
– Sergente maggiore Morris, – disse il nuovo venuto, presentandosi.
II sergente maggiore strinse la mano ai presenti, accettò la poltrona che gli veniva offerta accanto al fuoco e assunse un’aria soddisfatta mentre il padrone di casa andava a prendere whisky e bicchieri e metteva sulla fiamma un piccolo bricco di rame.
Al terzo bicchiere i suoi occhi si fecero più lucidi ed egli cominciò a parlare; il piccolo circolo familiare guardava con interesse questo visitatore che arrivava da lontano mentre squadrava le larghe spalle nella poltrona e narrava di scene strane e di imprese epiche, di guerre e di pestilenze e di popolazioni curiose.
– Ventun anni di questa vita, – disse White, rivolgendosi alla moglie e al figlio. – Quando è partito era un ragazzino tutto pelle e ossa che lavorava nell’arsenale. E guardatelo un po’ adesso.
– Sembra che non se la sia passata molto male, – osservò cortesemente la signora White.
– Anche a me piacerebbe andare in India, – disse White, – non fosse altro che per vedere come è fatto il mondo.
– State molto meglio qui dove siete, – fece il sergente maggiore, scuotendo la testa. E la scosse ancora dopo aver appoggiato al tavolo, con un sospiro, il bicchiere vuoto.
– Mi piacerebbe vedere quei vecchi templi, e i fachiri, e i giocolieri, – insistette il vecchio. – Che cosa avevate incominciato a raccontarmi l’altro giorno a proposito di una zampa di scimmia o simili, Morris?
– Niente, – si affrettò a rispondere il soldato. – O almeno, niente che valga la pena di ascoltare.
– Una zampa di scimmia? – chiese la signora White, incuriosita.
– Bene, è solo un esempio di quella che si potrebbe chiamare magia, forse, – disse il sergente maggiore, con aria disinvolta.
I tre ascoltatori si chinarono in avanti, più interessati che mai. Il visitatore si portò distrattamente alle labbra il bicchiere vuoto, poi tornò ad appoggiarlo sul tavolo. Il padrone di casa si affrettò a riempirglielo.
– A guardarla, – disse il sergente maggiore, frugandosi in tasca, – è una zampetta come tutte le altre, essiccata come una mummia.
Aveva preso di tasca qualcosa, e lo mostrò. La signora White si fece indietro con una smorfia, ma suo figlio invece lo prese e lo esaminò con curiosità.
– E che cosa ha di particolare? – chiese White che, dopo averla presa a sua volta dalle mani del figlio e dopo averla osservata, la mise sul tavolo.
– Ha un incantesimo che le è stato gettato da un vecchio fachiro, – spiegò il sergente, – un santone. Voleva mostrare che il destino domina la vita della gente e che coloro i quali vogliono interferire con il destino lo fanno a proprio rischio e pericolo. Ha messo su questa zampa un incantesimo in modo che tre uomini diversi potessero esigere da essa l’adempimento di tre desideri.
Parlava con una serietà così profonda che i suoi ascoltatori si resero conto come le loro risate apparivano un poco fuori luogo.
– Bene, perché non avete espresso i vostri tre desideri, signore? – domandò Herbert, molto a proposito.
Il soldato lo guardò come, in genere, la mezza età guarda la giovinezza presuntuosa. – Li ho espressi, – disse, adagio, mentre il suo viso segnato si sbiancava.
– E questi vostri tre desideri sono stati realmente esauditi? – volle sapere la signora White.
– Sì, – rispose il sergente maggiore, e il bicchiere gli picchiò contro i denti robusti.
– E qualcun altro ha visto soddisfatti i suoi tre desideri? – insistette la vecchia signora.
– Il primo li ha visti esaudire, sì, – fu la risposta. – Non so chi fossero i primi due, ma il terzo era morto. È così che sono venuto in possesso della zampa.
Il suo tono era così grave che un profondo silenzio cadde sul gruppetto.
– Se voi avete già visto soddisfatti i vostri tre desideri, è inutile che la teniate allora, – disse alla fine il vecchio. – Per che cosa la conservate ancora?
Il soldato scosse la testa. – Una fantasia mia, immagino. Una volta mi ero messo in testa di venderla, ma credo che non farò mai una cosa del genere. Ha già provocato guai a sufficienza, questa zampa. E poi, nessuno la comprerebbe. Alcuni pensano che si tratti di una favola, e chi ci crede vuole prima metterla alla prova e poi pagarmi.
– Se poteste esprimere altri tre desideri, – chiese il vecchio, guardandolo fissamente, – lo fareste?
– Non lo so, – fece l’altro. – Non lo so.
Prese la zampa, la fece dondolare fra il pollice e l’indice, poi, con un movimento brusco, la buttò nel fuoco. Con un grido soffocato, White si chinò e la recuperò dalle fiamme.
– Meglio lasciarla bruciare, – proclamò il soldato con tono solenne.
– Se non la volete più, Morris, – disse il vecchio, – datela a me.
– No, – replicò l’amico, ostinato. – L’ho buttata nel fuoco. Se la tenete, non date a me la colpa di quello che può succedere. Se siete un uomo di buon senso, fareste meglio a rimetterla fra le fiamme.
L’altro scosse la testa ed esaminò con attenzione l’oggetto di cui era appena entrato in possesso.
– Come si fa? – domandò.
– Tenetela nella destra ed esprimete il desiderio ad alta voce, – spiegò il sergente maggiore. – Ma ci tengo a mettervi in guardia contro le conseguenze del vostro atto.
– Sembrano le Mille e una notte, – commentò la signora White, mentre si alzava e cominciava a preparare la cena. – Non vi pare che, per ciò che mi riguarda, potrei esprimere il desiderio di avere quattro mani?
Suo marito prese il talismano di tasca e poi tutti e tre scoppiarono in una risata, ma il sergente maggiore, il viso atteggiato ad una espressione di profondo allarme, lo afferrò per un braccio.
– Se proprio volete esprimere i vostri desideri, – disse, cupo, – chiedete almeno qualcosa di sensato.
White tornò a mettere in tasca la zampa, poi, sistemate le sedie, fece cenno all’amico di prendere posto a tavola. Durante la cena il talismano fu quasi completamente dimenticato, e più tardi i tre ascoltarono con profonda attenzione una seconda puntata delle avventure del soldato in India.
– Se la storia della zampa di scimmia non è più degna di fede di quelle che ci ha raccontato, – disse Herbert quando la porta si fu chiusa alle spalle del loro ospite, appena in tempo perché arrivasse a prendere l’ultimo treno, – credo proprio che non riusciremo a ricavarne molto.
– Gli hai dato qualcosa in pagamento? – chiese la signora White, guardando attentamente il marito.
– Oh, una sciocchezza, – egli rispose, arrossendo un poco. – Non voleva accettare niente, ma ce l’ho costretto. Ed ha ancora insistito perché la buttassi via.
– Già, – fece Herbert, con ben simulato orrore. – Oh, saremo ricchi e famosi e felici. Esprimi il desiderio di diventare imperatore, papà, tanto per cominciare; in questo modo non sarai più agli ordini di tua moglie.
Poi cominciò a correre attorno al tavolo, inseguito dalla furibonda signora White armata di un copridivano.
White prese la zampa di tasca e la osservò, dubbioso.
– Non so quale desiderio esprimere, e questo è un fatto, – disse lentamente. – Mi sembra di avere tutto quello che voglio.
– Se solo potessi far rimettere in ordine la casa, saresti più felice, non è vero? – fece Herbert, appoggiandogli una mano su una spalla. – Bene, chiedi duecento sterline allora; saranno più che sufficienti.
Il padre, sorridendo un poco vergognoso della propria credulità, levò alto il talismano mentre il figlio, con un’aria solenne guastata però da un allegro ammiccamento alla madre si mise a sedere al piano e faceva echeggiare tutta una serie di lugubri accordi.
– Desidero duecento sterline, – disse il vecchio, scandendo le parole.
Il suono del pianoforte coronò la frase, ma fu subito interrotto da un grido di terrore del vecchio. La moglie e il figlio si precipitarono verso di lui.
– Si è mosso! – egli esclamò, con una occhiata di disgusto all’oggetto che giaceva sul pavimento. – Mentre esprimevo il desiderio, mi si è contorto in mano come un serpente.
– Bene, non vedo il danaro, – disse il figlio, raccogliendo la zampa e mettendola sul tavolo, – e scommetto che non lo vedrò mai.
– Deve essere stata la tua immaginazione, papà, – mormorò la moglie, guardandolo con espressione ansiosa.
– Egli scosse la testa, adagio. – Non importa, comunque; non è successo niente di male, ma è una cosa che mi ha dato lo stesso un brutto colpo.
Tornarono a mettersi a sedere accanto al fuoco mentre i due uomini terminavano di fumare la pipa. Fuori, il vento era più forte che mai, e il vecchio sussultò, nervoso, al rumore di una porta che sbatteva al piano di sopra. I tre rimasero immersi in un silenzio insolito e deprimente che durò fino a quando la vecchia coppia si alzò per andarsi a coricare.
– Probabilmente troverai i soldi avvolti in un grosso pacco in mezzo al tuo letto, disse Herbert, dopo aver augurato la buona notte, – e in cima all’armadio ci sarà accasciato qualcosa di orribile che ti spierà mentre metti in tasca quel danaro mal guadagnato.
Il mattino seguente, alla luce del sole invernale che pioveva sul tavolo della prima colazione, Herbert rise dei propri timori. Nella stanza c’era un’aria di sana allegria che era mancata completamente la sera precedente, e la sudicia e raggrinzita zampetta giaceva abbandonata sulla credenza con una noncuranza che lasciava intendere una ben scarsa fiducia nelle sue virtù.
– Credo che tutti i vecchi soldati siano eguali, – disse la signora White. – Bella idea la nostra di starcene a ascoltare tutte quelle sciocchezze. Come è possibile che i desideri siano esauditi al giorno d’oggi? E, ammesso che fosse possibile, che male ti farebbero duecento sterline, papà?
– Può darsi che gli cadano sulla testa dal cielo, – commentò il frivolo Herbert.
– Morris ha detto che tutto accadeva nel più naturale dei modi, – replicò il padre, – tanto che tu, volendo, avresti potuto attribuire la cosa a una coincidenza pura e semplice.
– Bene, non capitare sul danaro prima del mio ritorno, – disse Herbert, alzandosi da tavola. – Temo che ti trasformerebbe in un uomo meschino e avaro, e in tal caso noi saremmo costretti a sconfessarti.
La madre rise, lo seguì fino alla porta, lo guardò mentre si avviava giù per la strada e, quando tornò alla tavola, si prese allegramente gioco della credulità del marito. Il che non le impedì di precipitarsi alla porta quando il postino bussò, e non le impedì di accennare, sia pure brevemente, alle abitudini alcoliche di un sergente maggiore in ritiro quando risultò che la posta le aveva recapitato soltanto un conto del sarto.
– Credo che, quando tornerà a casa, Herbert pescherà fuori qualcun’altra delle sue osservazioni ironiche, – osservò, mentre sedevano a pranzo.
– Temo di sì, – convenne White, versandosi un poco di birra; ma, con tutto ciò, quella cosa mi si è mossa in mano, sarei pronto a giurarlo.
– Ti è sembrato così, certo, – disse la vecchia, conciliante.
– Ti dico che è così, – replicò lui. – Non ci pensavo nemmeno; ho avuto semplicemente… Che c’è?
La moglie non gli rispose. Era intenta a seguire con gli occhi i misteriosi movimenti di un uomo che, fuori, stava guardando con aria indecisa la casa, quasi cercasse di decidersi a entrare. Il pensiero fisso alle duecento sterline, ella notò che lo sconosciuto era ben vestito e portava in testa un cappello a cilindro di seta, nuovo di zecca. Tre volte l’uomo indugiò con la mano sulla maniglia, poi, proseguì. La quarta volta indugiò con la mano sulla maniglia, poi, con subitanea decisione, spinse e si avviò su per il sentiero. Nello stesso istante la signora White si portava in fretta le mani dietro la schiena, slacciava in fretta le fettucce del grembiale e nascondeva questo utile articolo di uso domestico sotto il cuscino della sedia.
Ella fece accomodare nella stanza lo sconosciuto, che appariva a disagio. L’uomo guardava furtivamente la signora White, ed ascoltò con espressione preoccupata la vecchia signora mentre si scusava per il disordine della stanza e per la giacca del marito, un indumento che di solito veniva riservato per i lavori in giardino. Poi ella attese, nei limiti della pazienza del suo sesso, che l’altro entrasse in argomento, ma sulle prime lo sconosciuto si tenne stranamente silenzioso.
– Mi… mi hanno chiesto di passare da voi, – disse alla fine, e si chinò per togliere un filo dal risvolto dei calzoni. – Vengo da parte della Maw & Meggins.
La vecchia sussultò. – Qualcosa di grave? – chiese ansante. – È successo qualcosa a Herbert? Che cosa? Che cosa?
Intervenne il marito. – Via, via, mamma, – disse in fretta. – Siediti e non arrivare a conclusioni avventate. Sono sicuro che non venite a portarci cattive notizie, signore, – e guardò l’altro con espressione ansiosa.
– Sono dolente… – cominciò il visitatore.
– È ferito? – domandò la madre.
Il visitatore annuì con un cenno. – Ferito gravemente, – disse, adagio, – ma non soffre più.
– Oh, sia ringraziato Iddio, – esclamò la vecchia, giungendo le mani.
– Sia ringraziato Iddio! Sia ringra…
Si interruppe bruscamente mentre il sinistro significato di quella frase cominciava a farsi chiaro per lei, e sul viso che l’uomo teneva rivolto verso terra lesse la peggiore conferma dei propri timori. Trattenne il fiato allora e, voltandosi verso il marito che non era riuscito ancora a capire gli appoggiò una mano tremante su una spalla. Seguì un lungo silenzio.
– È finito fra gli ingranaggi di una macchina, – disse alla fine il visitatore, a voce bassa.
– Finito fra gli ingranaggi di una macchina, – ripeté White, con tono atono, – sì.
Si mise a sedere, gli occhi che non vedevano fissi fuori dalla finestra, e prese fra le sue la mano della moglie, e la strinse forte, come aveva fatto nei giorni ormai lontani in cui l’aveva corteggiata, circa quaranta anni prima.
– Era il solo che ci fosse rimasto, – disse poi, girando la testa verso il visitatore. – E’ dura.
L’altro tossì e, alzandosi, si diresse lentamente verso la finestra.
– La ditta desiderava che vi presentassi le mie più sincere condoglianze per la vostra grave perdita, – disse, senza voltarsi. – Capirete, spero, che io sono un semplice funzionario e che obbedisco soltanto a ordini ricevuti.
Nessuna risposta; la vecchia aveva il viso cereo, gli occhi sbarrati e fissi, e quasi non respirava; il viso del marito aveva l’espressione che aveva dovuto avere quello del suo amico sergente impegnato nella prima azione di guerra.
– Sono venuto qui per dire che la Maw & Meggins respinge ogni e qualsiasi responsabilità, – continuò l’altro. – Non vanno debitori di nulla nei vostri confronti, ma, in considerazione dei servizi di vostro figlio, desiderano offrirvi quale compenso una certa somma.
White lasciò andare la mano della moglie e, alzandosi in piedi, guardò con una espressione inorridita il suo visitatore. Le sue labbra aride formularono la parola: – Quanto?
– Duecento sterline, – fu la risposta.
Senza neppure udire il grido della moglie, il vecchio abbozzò un debole sorriso, allungò le mani in avanti, come un cieco, e si afflosciò, svenuto, sul pavimento.



I due vecchi seppellirono il loro morto nel grande cimitero nuovo, a due miglia circa di distanza, e fecero ritorno a una casa immersa nelle ombre e nel silenzio. Tutto si era svolto così in fretta che da principio quasi non riuscivano a rendersene conto, e rimasero in uno stato di attesa, come se dovesse succedere qualcosa d’altro, qualcosa che valesse ad alleggerire quel carico, troppo pesante per i loro stanchi cuori. Ma i giorni passavano, e l’attesa cedette alla rassegnazione, quella rassegnazione senza speranza dei vecchi che viene spesso scambiata per apatia. Qualche volta quasi nemmeno si parlavano, perché non avevano nulla da dirsi, e le loro giornate erano lunghe e tediose.
Fu circa una settimana dopo che il vecchio, svegliandosi all’improvviso nel cuore della notte, allungò una mano e si accorse di essere solo. La stanza era immersa nelle tenebre, e dalla finestra giungeva il suono di un pianto sommesso. Si sollevò sul letto e tese l’orecchio.
– Torna qui, – disse, teneramente. – Prenderai freddo.
– Fa ancora più freddo per mio figlio, – rispose la vecchia, scoppiando di nuovo in lacrime.
La eco dei singhiozzi svanì alle sue orecchie. Il letto era tiepido, ed egli aveva gli occhi pesanti di sonno. Finì per appisolarsi, poi si addormentò, fino a quando un grido alto, selvaggio della moglie non lo fece risvegliare con un sussulto.
– La zampa di scimmia! – ella urlava, frenetica. – La zampa di scimmia!
Si drizzò, allarmato. – Dove? Dov’è? Che c’è?
Ella avanzò con passo incerto verso di lui, attraverso la stanza. – La voglio, – mormorò. – Non l’hai distrutta, vero?
– È in salotto, sulla mensola, – rispose, meravigliato. – Perché?
Ella urlò e rise a un tempo, poi, chinandosi su di lui, lo baciò su una guancia.
– Ci ho pensato solo adesso, – gli disse, istericamente. – Perché non ci ho pensato prima? Perché non ci hai pensato tu?
– Pensato a che cosa? – chiese.
– Gli altri due desideri, – rispose, in fretta. – Ne abbiamo espresso solo uno.
– E non è stato forse abbastanza?
– No, – esclamò ella, trionfante, – ne esprimeremo un altro ancora. Va’ a prenderla subito ed esprimi il desiderio che il nostro ragazzo torni in vita.
L’uomo si mise a sedere sul letto e scostò le lenzuola dalle membra tremanti. – Mio Dio, sei pazza! – gridò, sbalordito.
-Va’ a prenderla, – fece lei, ansante, – va’ a prenderla.
– Torna a letto, – mormorò, con voce incerta. – Non sai quello che stai dicendo.
– Il primo desiderio è stato esaudito, – replicò la vecchia, febbrilmente.
– Perché non dovrebbe esserlo anche il secondo?
– Una coincidenza, – balbettò White.
– Va’ a prenderla ed esprimi il desiderio, – urlò la vecchia, e lo trascinò verso la porta.
Egli scese nelle tenebre, raggiunse a tentoni il salotto e trovò la mensola. Il talismano era al suo posto, ed egli si senti invadere dall’orribile paura che il desiderio ancora inespresso potesse portargli lì il figlio mutilato senza lasciargli il tempo di uscire dalla stanza, e trattenne il respiro allora, mentre si accorgeva di non sapere più da che parte fosse la porta. La fronte madida di gelido sudore, fece il giro del tavolo, poi continuò, guidandosi sul muro, fino a quando non si trovò nel piccolo corridoio, quella strana e misteriosa cosa stretta in una mano.
Persino il viso pallido di sua moglie appariva cambiato quando entrò nella stanza. Era bianco e ansioso, e ai suoi timori parve che avesse una espressione insolita. In quel momento ebbe paura di lei.
– Il desiderio! – ella gridò, con voce energica.
– È una cosa folle e malvagia, – balbettò.
– Il desiderio! – ripeté la moglie.
Sollevò la mano. – Voglio che mio figlio torni in vita.
Il talismano cadde per terra, ed egli lo guardò, rabbrividendo. Poi si abbandonò, tremante, su una sedia mentre la vecchia, gli occhi accesi, andava alla finestra ed apriva le persiane.
Rimase seduto lì fino a quando il freddo non gli penetrò nelle ossa, e ogni tanto dava una rapida occhiata alla figura della vecchia che guardava fuori. Il mozzicone, che era arrivato sotto il bordo dei portacenere di ceramica, allungava ombre pulsanti sul soffitto e sulle pareti, poi, dopo un ultimo guizzo più forte, si spense. Sollevato oltre ogni dire all’idea che il talismano si era rivelato inefficace, il vecchio si trascinò di nuovo fino al letto, e un paio di minuti dopo la moglie lo raggiunse e si distese stancamente al suo fianco.
Nessuno parlava, ma se ne stavano tutti e due in silenzio ad ascoltare il ticchettio del pendolo. La scala scricchiolò e un topo corse precipitosamente e rumorosamente nel muro. Il buio era opprimente, e, dopo essere rimasto immobile per qualche tempo per raccogliere tutto il suo coraggio, il marito prese la scatola dei fiammiferi, ne accese uno e scese al piano terreno per andare a cercare una candela.
Ai piedi delle scale, il fiammifero si spense, ed egli si fermò per accenderne un altro; proprio in quel momento, un colpo, così leggero e furtivo da essere appena percepibile, venne bussato alla porta.
I fiammiferi gli caddero di mano. Rimase immobile, senza respiro, fino a quando il colpo si ripeté. Allora si voltò e risalì di corsa nella sua stanza e si chiuse la porta alle spalle. Un terzo colpo echeggiò nella casa.
– Che cosa è? – esclamò la vecchia, sollevandosi.
– Un topo, – le rispose, con voce incerta, – un topo. Mi è passato davanti sulle scale.
La moglie si mise a sedere sul letto, l’orecchio teso. Un colpo energico rimbombò per tutta la casa.
– E’ Herbert! – ella gridò. – È Herbert!
Si precipitò alla porta, ma il marito le si parò dinanzi e, prendendola per un braccio, la tenne saldamente.
– Che cosa intendi fare? – le bisbigliò, roco.
-E’ il mio ragazzo… è Herbert! – urlò ella, dibattendosi meccanicamente.
– Avevo dimenticato che c’erano due miglia da percorrere. Perché mi trattieni? Lasciami andare! Devo aprirgli la porta!
– Per l’amor di Dio, non lasciarlo entrare! – esclamò il vecchio, tremante.
– Hai paura di tuo figlio! – strillò la vecchia, lottando per liberarsi. – Lasciami andare. Vengo, Herbert, vengo!
Un altro colpo, un altro ancora. Con una mossa improvvisa la vecchia si divincolò e si precipitò fuori dalla stanza.
Il marito la seguì sul pianerottolo e la chiamò con voce straziante mentre correva giù per le scale. Udì il tintinnio della catena che veniva tolta, il rumore del catenaccio che scivolava adagio dalla sua piastra. Poi, ecco la voce della vecchia, forzata e ansante.
– Il catenaccio in alto, – gridò, a voce altissima. – Scendi. Non ci arrivo.
Ma il marito era con le mani e con le ginocchia sul pavimento e cercava disperatamente la zampa. Se solo fosse riuscito a trovarla prima che quello che c’era fuori entrasse…
Un tambureggiare di colpi echeggiò per la casa, ed egli udì il rumore di una sedia che veniva trascinata, che la moglie appoggiava alla porta, nel corridoio. Udì il cigolio del catenaccio che veniva spinto indietro, adagio, e nello stesso istante trovò la zampa di scimmia, e mormorò freneticamente, ansando, il suo ultimo desiderio.
I colpi cessarono bruscamente, anche se la loro eco indugiava ancora nella casa. Udì lo scricchiolio della sedia che veniva spinta indietro, il rumore della porta che si apriva.
Una ventata gelida si infilò su per le scale, ed un lungo ed alto gemito di delusione e di scoraggiamento della moglie gli diede il coraggio di correrle accanto e poi di spingersi fino al cancello. Il lampione che sorgeva proprio lì di fronte illuminava una strada silenziosa e deserta.


La zampa di scimmia _ William Wymark Jacobs

venerdì 16 ottobre 2015

Notturno _ Ciclo di Halloween _ #I brividi del venerdì

Secondo appuntamento con il ciclo di Halloween. Stanotte un racconto più moderno.
Buona lettura.

Ascoltami, cara.
Non ti dispiace se ti parlo, vero? Non ho ancora sonno, e ci sono tante cose che voglio dirti. Non ho potuto farlo prima, perché ne ho avuto sempre paura.
Se ti sembra buffo, posso capirlo. Quando si è giovani e belli non c’è nulla da temere, no?
Sono di quelli che non se ne preoccupavano mai, che ci ridevano su, che la rifiutavano. È a causa di ciò che penso di essere arrivato al punto di rifiutare me stesso. Guardandomi indietro, posso capire come sono arrivato a essere un uomo impaurito, un solitario.
Ma tu hai cambiato tutto. Non ho più paura, e con te al mio fianco anche la solitudine è scomparsa.
C’è anche un’altra cosa di cui non ti dovrai mai preoccupare, cara. Le persone come te non sono mai sole, poiché hanno sempre l’amore. L’hanno dai loro genitori durante l’infanzia, l’hanno anche dagli amici e, quando crescono, se lo trovano bell’e fatto. Non pensare che non me ne sia accorto – tutti quegli atleti, i fusti dell’università, che ti stavano attorno, che ti corteggiavano. E tu che sorridevi, dando tutto per scontato.
Non capire male, non ti sto rimproverando. Perché non avresti dovuto, dato che è sempre stato così?
Il motivo per cui ti sto dicendo questo è di cercare di farti capire come è stato diverso per me. Da quanto posso ricordare sono sempre stato spaventato. E soprattutto di notte, quando c’erano tutti i motivi assieme – aver paura perché ero solo al buio e nessuno se ne preoccupava, tantomeno i miei.
Di solito stavo sveglio qui sul letto, piangendo per le cose che mamma aveva detto, per le cose che papà aveva fatto per ferirmi. Guardando indietro ora, non credo che essi cercassero di farmi del male di proposito; solo che non sapevano quanto fossi sensibile. Per loro, dirmi che avevo un foruncolo sul naso era solo uno scherzo. Quando mi chiamavano imbranato, era solo il loro modo per ricordarmi di stare più attento. Dirmi che portare gli occhiali mi avrebbe impedito di entrare nella squadra della scuola non voleva dire che mi rimproverassero per questo. Ma allora, in effetti, lo avvertivo come tale.
Ciò è quanto mi fece temere di più, quando capii che li odiavo per quello che dicevano, per come ridevano. Se persino mio padre e mia madre non si preoccupavano di ferire i miei sentimenti, come potevo aspettarmi di meglio dagli altri? Per gli altri ragazzi, per gli insegnanti, dovevo essere dieci volte peggiore, e allora odiavo anche loro. Ma non volevo odiarli, mi dispiaceva odiare qualcuno, così – come dice lo strizzacervelli – proiettavo invece le mie paure sull’oscurità.
Oh sì, andai da uno strizzacervelli. Non lo sapevi, vero, cara? I miei non lo dissero a nessuno che mi ci avevano portato, era una sorta di colpevole segreto, qualcosa che si vergognavano di ammettere. Il loro figlio che andava da un dottore della testa perché piangeva di notte. E bagnava il letto. Che succede, un ragazzo così grande che si comporta come un bambino? Cresci, diventa un uomo, mi dicevano.
Lo strizza non lo disse mai, naturalmente. Cercò di aiutarmi, so che lo fece, e dopo un po’ superai il problema dell’enuresi. Questa è la parola che usò, non l’ho mai dimenticata. Non ho dimenticato un sacco di cose che mi disse, le cose che mi insegnò. Ma la più importante che ho imparato è qualcosa di cui non si rese conto. Mi insegnò a non mostrare i miei sentimenti.
Pensava di avermi guarito dalla paura del buio, ed ecco perché potei smettere di vederlo. Ciò che accadde davvero, invece, fu che smisi di parlare delle cose che mi spaventavano. Volevo compiacerlo, compiacere i miei, conoscere che cosa volesse dire essere lodato invece che rimproverato.
Ma non conobbi altro che la paura.
Restavo sveglio nel buio notte dopo notte, cercando di trattenermi dal tremare. Ora, invece di aver paura di odiare gli altri, avevo paura delle cose. Cose come le ombre, quelle ombre che spuntavano dagli angoli; cose come il vento che urlava fuori dalla finestra. Nascondevo la testa sotto il cuscino per tenere lontani le forme e i suoni, ma non funzionava mai.
Perché mi sarei addormentato e sarebbero venuti i sogni. Succedeva quando il vento si mutava in voci che mi deridevano, e le ombre si mutavano in volti, con occhi che mi osservavano e bocche che ghignavano. Venivano ogni notte, e ogni notte mi sarei svegliato urlando.
Ti prego, cara, cerca di ricordarti che non te lo sto dicendo per spaventarti, ma solo per farti capire che è sempre stato così per me in tutti questi anni.
Il peggio era che non potevo dire niente a nessuno. Ora sono adulto e tutti pensano che abbia superato il mio “piccolo problema”.
Così lo chiamavano i miei: il mio “piccolo problema”. Almeno non mi parlarono in quel modo quando crebbi. Invece era: “non capisco cosa te ne farai di una laurea in scienze umane quando uscirai da scuola. È tempo che cominci a pensare a qualcosa di pratico, a una carriera. Eccoti qui, già a ventun’anni, che non hai ancora idea di cosa fare nella vita.”
Non era vero, naturalmente. Sapevo che cosa volevo fare. Volevo ficcarmi in un buco, da qualche parte, e morire. E se non ci fossi riuscito, forse avrei dovuto fare dell’altro. Ad esempio, suicidarmi.
Non pensare che non mi sia passato per la mente. In notti come questa, a giacere solo qui nel letto, ne studiai persino i modi. Ma era inutile, sapevo che non avrei avuto il coraggio di farlo.
Paura di vivere, paura di morire. Così leggevo molto, ascoltavo la musica, andavo al cinema, guardavo la TV. Mi riempiva il tempo, ma non poteva riempire la mia vita. Per quello hai bisogno di amici, di gente che si interessi di te.
Ti prego di non fartene una brutta impressione, cara. Non che abbia voltato le spalle al prossimo. Ho avuto modo di conoscere un sacco di gente all’università e a lezione, e cercavo di fare amicizia con loro, ma sembrava non funzionare mai nel modo giusto. Nessuno voleva avere a che fare con me, nessuno mi invitava alle feste. Lo so perché. A chi importa di un tappo secco con gli occhiali, di uno che ha paura di guardare gli altri negli occhi e balbetta quando cerca di parlare?
Non hai mai avuto quel problema, eh? Lo so, perché ti osservavo. Dal giorno in cui ti sei iscritta al corso di letteratura inglese ho cominciato a osservarti. Ti ho memorizzata. Il tuo modo di essere e di camminare, di sorridere e di ridere, persino quelle piccole cose, come tirarti indietro i capelli dalla fronte prima di alzarti per rispondere a una domanda.
Credo che tu non mi abbia notato. E non ho mai avuto abbastanza coraggio per parlarti o solo per dirti ciao, non con quella banda sempre attorno a te – tutti quei tipi ghignanti coi baffi alla Burt Reynolds, che facevano le loro scene da macho. Oh, non posso rimproverarti per aver gradito la loro attenzione. Solo che non avevo una chance, e lo sapevo.
Ma avevo bisogno di qualcuno di cui occuparmi, e per un po’ pensai che i miei potessero essere ancora la risposta. Vedendo che mi laureavo magna cum laude e tutto quanto, forse avrebbero cambiato la loro opinione su di me.
Ricordo com’ero eccitato quando telefonarono e dissero che avrebbero abbreviato la loro vacanza e sarebbero tornati in tempo per la cerimonia di laurea, e come mi sentivo bene quando andai a prenderli con l’auto all’aeroporto.
Sai che cosa accadde, naturalmente. Era su tutti i giornali. Quel maledetto strano incidente, al momento del decollo dalla sosta di Denver. Non riuscirono mai a vedermi laureato, né io li rividi più, se non nelle bare chiuse. Poi i funerali e il legale, e la sistemazione della proprietà – ma non voglio parlarne. Non sto cercando di essere compatito, cara, sto solo cercando di farti capire.
All’inizio sembrava che le cose andassero meglio per me, dato che ereditai abbastanza per vivere senza la preoccupazione di un lavoro regolare. E non c’era nessuno attorno che mi mettesse a tacere o che mi dicesse cosa fare.
Ma era proprio questo che non andava. Ero completamente solo, mi trascinavo in giro per questa grande casa senza nessuno da vedere o a cui parlare. Arrivai a sentirmi come confinato e forse diventai un po’ matto.
È il solo modo che ho per spiegarti cosa feci. Fino ad ora ho avuto vergogna di confessarlo a qualcuno, ma posso dirtelo. Forse hai già intuito il motivo che avevo.
Perché non ero mai stato con una donna.
Difficile da credere al giorno d’oggi, no? Ventitre anni e ancora vergine.
Così andai da quella battona.
Successe perché non ce la facevo più a stare solo e una notte guidai fino a quel bar. Un’altra cosa: non ho mai preso droga e non bevevo mai più di una birra o due di tanto in tanto. Ma quella volta me ne fregai, volevo vedere come andava e ovviamente tutti quei bicchieri mi misero a terra.
Non sapevo neanche di essere ubriaco, mi sentivo solo rilassato, quasi come sono ora con te. Ero tutto solo là e cominciai a parlare col barista.
Non so neanche cosa dissi e come andò, ma mi parlò di quella puttana e mi diede l’indirizzo. Le telefonò persino per dirle che stavo arrivando; credo fossero d’accordo.
Se non fossi stato ubriaco non ci sarei mai andato, ma allora salii nel suo appartamento dove mi stava aspettando. Era molto più giovane e carina di quanto mi fossi aspettato, più simile a una prostituta d’alta classe. Ripensandoci ora, credo dovesse sapere in che situazione fossi e fece del suo meglio per rendere le cose più facili, aiutandomi persino a togliermi i vestiti, e poi…
E poi niente. Non voglio entrare in volgari dettagli. Non voglio pensarci neanche adesso, ma andò tutto male, non ce la facevo, e lei cominciò a ridere e a chiamarmi con un nome. Non me ne importava, volevo solo uscire di là.
Fu solo più tardi che pensai al nome con il quale mi aveva chiamato. Allora diventai furioso, ero davvero arrabbiato con me stesso per essere stato così sciocco.
La sola cosa che ne ricavai fu imparare come il bere possa essere d’aiuto. Comprai delle bottiglie di whisky da tenere qui e me le bevevo a casa. Non preoccuparti, non sono alcolizzato o cose del genere. Posso smettere quando voglio, e so come fare. Ma qualche bicchiere mi fa sentire meglio, senza i sogni. Il problema è che, quando mi sveglio, sono ancora teso e devo farmene un paio per calmarmi.
Ma non voglio più dipendere dal whisky. Adesso ho te. Non so come ti senti, ma per me è come un miracolo. Un sogno diventato vero.
Perché certe volte anche il bere non aiuta. Come stasera, che sono così agitato dal ricordo di tutte quelle brutte cose e mi domando se ha avuto senso cercare di andare avanti. Ero seduto qui in casa quando è scoppiato il temporale, ad ascoltare il vento che grattava le imposte, a guardare la bottiglia vuota sul tavolo, e sapevo di dover uscire.

Non avevo mangiato niente da colazione e così pensai che un po’ di cibo mi avrebbe fatto bene. La pioggia stava aumentando sul serio quando uscii; era difficile vedere davanti e la macchina cominciava a slittare, così decidi di svoltare nella strada secondaria e di prendere la via della città.
Fu proprio allora che accadde – guidando lungo il viale buio pesto sotto la pioggia, senza alcuna luce né traffico, nulla, se non gli alberi attorno. Credo che l’alcool mi facesse ancora effetto, perché quando la nebbia cominciò ad accumularsi avvertii un senso di vuoto dentro, come se fossi solo e sperduto in mezzo a chissà dove. E sapevo che, se anche la tempesta fosse cessata e la nebbia si fosse alzata, sarei restato ancora solo, ancora perduto, e niente sarebbe mai venuto a salvarmi.
Poi sei capitata tu, cara. Mi hai salvato.
Nel momento in cui ti vidi agitare la lampada, vicino a quella stupida piccola convertibile rossa, è stato come se tutto cambiasse. Appena ti ebbi riconosciuta, sapendo che eri proprio là e che mi chiamavi, l’incubo si trasformò in un sogno che si avvera. Forse pensi che sia stato solo un caso che ha fatto prendere la via secondaria e incontrare te laggiù in panne, dopo che ti era scoppiata una gomma. Ma non era frutto del caso, cara: era il destino.
Guardandomi indietro ora, sono certo che doveva succedere.
Anche portarti alla stazione di servizio e trovarla chiusa, e poi portarti qui a casa per usare il telefono, era tutto destino.
E il modo in cui mi guardavi, il modo in cui sorridevi, c’era qualcosa che non posso spiegare. Per la prima volta nella mia vita mi sono sentito un vero uomo. E per la prima volta nella mia vita ho potuto comportarmi come un uomo.
Lasciami confessare una cosa. Mentivo quando ti ho detto che il telefono non funzionava. Funzionava, ma non volevo che lo sapessi. Ciò che volevo era averti qui con me, averti e tenerti nel modo in cui un vero uomo tiene la donna che ama.
È ciò che ho fatto e spero che tu capisca ora. Spero che tu comprenda ciò che ha significato per me, e che significhi qualcosa anche per te. Sapevo di amarti troppo per forzarti, così sono contento che sia andata nel modo che è stato. Ogni cosa sembrava proprio dover accadere, perché era destino.
Eri tanto bella, cara – non come quella puttana, non come le ragazze che ridevano sempre. Ora posso dimenticarle, dimenticare la vergogna, perché ho te. D’ora in avanti staremo sempre assieme.
Grazie, cara. Grazie per avermi fatto felice con il dono del tuo amore.
Mi piacerebbe solo non averti uccisa per prima. 


 
Notturno _ Robert Bloch

venerdì 9 ottobre 2015

La mascherata della Morte Rossa _Ciclo di Halloween_ #I brividi del venerdì

Io amo ottobre.
Le zucche, le foglie, le caldarroste… La pioggia, il tè caldo… Il plaid, i libri.
E quindi, ebbene sì, anche quest’anno riparte il “Ciclo di Halloween”, stavolta dedicato ai racconti dell’orrore dei grandi maestri del passato e del presente.
Spero che i racconti che ho scelto vi piacciano…
E vi spaventino.


Da lungo tempo la Morte Rossa devastava il paese. Nessuna pestilenza era mai stata così fatale, così spaventosa. Il sangue era la sua manifestazione e il suo sigillo: il rosso e l’orrore del sangue. Provocava dolori acuti, improvvise vertigini, poi un abbondante sanguinare dai pori, e infine la dissoluzione. Le macchie scarlatte sul corpo e soprattutto sul volto delle vittime erano il marchio della pestilenza che le escludeva da ogni aiuto e simpatia dei loro simili. L’intero processo della malattia: l’attacco, l’avanzamento e la conclusione duravano non più di mezz’ora.
Ma il principe Prospero era felice, coraggioso e sagace. E, quando le sue terre furono per metà spopolate, egli convoco un migliaio di amici sani e spensierati, scelti fra i cavalieri e le dame della sua corte, e si ritirò con loro in totale isolamento in una delle sue roccaforti. Era una costruzione immensa, magnifica, una creazione che corrispondeva al gusto eccentrico e alla grandiosità del principe. Un muro forte ed altissimo la circondava. Nel muro le porte erano di ferro. Una volta entrati, i cortigiani presero incudini e martelli massicci e saldarono le serrature. Impedivano così ogni possibilità di entrata o di uscita, per improvvisi impulsi di disperazione o di frenesia, che potevano nascere, in chi era dentro le mura. La fortezza era ampiamente fornita di viveri. Con tutte queste precauzioni i cortigiani potevano permettersi di sfidare il contagio. Il mondo esterno provvedesse a se stesso. Era tutto sommato follia addolorarsi o pensarci troppo su. Il principe aveva pensato a tutti i divertimenti possibili. C’erano buffoni, improvvisatori, c’erano ballerini, musicanti, c’era la bellezza e c’era il vino. Tutto chiuso là dentro. Fuori c’era la Morte Rossa.


Fu verso la fine del quinto o sesto mese di questo isolamento, mentre la pestilenza tutt’intorno infuriava al massimo, che il principe Prospero pensò di divertire i suoi mille amici con un ballo mascherato di un insolito splendore.
Fu una messa in scena voluttuosa, questa mascherata. Innanzitutto però, vorrei descrivere le stanze in cui si svolse. Sette stanze formavano un unico maestoso appartamento. In molti palazzi, simili fughe di stanze aprono a una veduta lunga e diritta; con le porte a due battenti che si aprono verso le pareti permettendo di vedere tutto in un solo colpo d’occhio. In questo caso invece la situazione era differente, come d’altronde ci si poteva aspettare dall’amore del principe per il bizzarro. Le camere erano disposte così irregolarmente da poter essere viste soltanto una alla volta. C’era, ogni venti o trenta metri, un’improvvisa svolta che apriva di conseguenza prospettive sempre diverse. A destra e a sinistra, nel mezzo delle pareti, un’alta e strettissima finestra gotica dava su un corridoio chiuso, che seguiva le tortuosità dell’appartamento. Queste finestre, di vetro lavorato, variavano di colore secondo la tinta dominante delle decorazioni di ogni singola stanza. Quella situata all’estremità orientale aveva nella decorazione una forte dominante blu, e blu erano le finestre. Negli ornamenti e nelle tappezzerie della seconda stanza predominava il purpureo e purpuree erano le vetrate. Tutta verde la terza, altrettanto le finestre. La quarta era arredata in arancione e così anche illuminata dello stesso colore, la quinta di bianco e la sesta di violetto. La settima stanza invece era tutta avvolta in arazzi di velluto nero, che pendevano dal soffitto e dalle pareti, ricadendo su tappeti della stessa stoffa e colore. Era soltanto in questa stanza che il colore delle finestre non corrispondeva a quello delle decorazioni. Le vetrate erano di un colore scarlatto, di un cupo color sangue. Ebbene, nessuna delle sette stanze con le loro decorazioni, pur ricca di ornamenti d’oro, era illuminata da lampade o da candelabri. Non v’era luce di alcun genere proveniente da candele o lampadari in questo succedersi di sale. Ma nei corridoi che accompagnavano erano appoggiati pesanti tripodi che sostenevano bracieri accesi, che, proiettando la loro luce raggiante attraverso il vetro colorato, illuminavano così in modo abbagliante le sale. Questo produceva un’infinità di immagini fantastiche. Ma nella stanza nera, quella a occidente, l’effetto della luce e del fuoco che si diffondeva sui drappi neri attraverso le rosse vetrate era talmente spettrale e produceva un tale effetto irreale sulle fisionomie di chi entrava, che nessuno aveva il coraggio di mettervi piede.
In questa sala si trovava pure, appoggiato contro la parete, un gigantesco orologio d’ebano. Il pendolo andava e veniva con un tic-tac sordo, emettendo un suono cupo e monotono e quando la lancetta dei minuti compiva il giro del quadrante e batteva l’ora, veniva fuori dai suoi polmoni di bronzo un suono chiaro, forte e profondo, straordinariamente musicale ma di una tale forza, che a ogni ora i musicisti dell’orchestra erano costretti a fermare l’esecuzione dei loro pezzi, per ascoltare quel suono; e così anche le coppie interrompevano le danze e su tutta l’allegra compagnia cadeva un velo di tristezza; e mentre l’orologio scandiva ancora i suoi rintocchi si notava che i più spensierati impallidivano e i più vecchi e sereni si passavano una mano sulla fronte in un gesto di confusa visione o meditazione. Ma non appena questi rintocchi tacevano, tutti erano subito presi da un sottile riso; i musicanti si guardavano fra di loro e sorridevano quasi imbarazzati del proprio nervosismo, e si promettevano che il prossimo scoccare della pendola non li avrebbe più messi tanto a disagio; ma poi, dopo sessanta minuti ( che sono esattamente tremilaseicento secondi del Tempo che fugge ), quando tornavano a risuonare i rintocchi dell’orologio, cresceva in loro lo stesso stato di smarrimento, di tremore e meditazione.
Ma nonostante ciò era una gaia e magnifica orgia. Il gusto del duca era del tutto speciale. Aveva l’ occhio sicuro per i colori e per gli effetti. Egli disprezzava il decorus della moda; i suoi progetti eran temerari e selvaggi, le sue concezioni avevano uno splendore barbaro. Qualcuno l’avrebbe giudicato pazzo. I suoi cortigiani sapevano bene che non era tale; ma bisognava sentirlo, vederlo, toccarlo per esserne sicuri.
In occasione di quella festa aveva presieduto lui in gran parte alla scelta dei mobili nei sette salotti e lo stile delle maschere era stato osservato secondo il suo gusto. Erano certo delle invenzioni grottesche. Era abbagliante, sfavillante — c’era anche del piccante e del fantastico — molto di ciò che poi abbiamo veduto in Ernani. C’ erano delle facce arabe, ornate in una maniera assurda; invenzioni mostruose e pazze; c’era del bello, del licenzioso e del bizzarro in quantità; dell’orrido, ma poco; e cose ributtanti a volontà. A dirla in breve era come una folla di sogni che si pavoneggiassero qua e là per le sette stanze. E questi sogni si contorcevano in tutti i sensi, prendendo il colore delle stanze; si sarebbe detto che eseguissero della musica camminando, e che le arie strane dell’orchestra fossero un’eco dei loro nasi.
Di tanto in tanto si sente suonare l’orologio di ebano nella stanza dei velluti. E allora per un momento tutto si ferma e tace, eccetto il suono dell’orologio. I sogni sono irrigiditi, paralizzati nelle loro posizioni. Ma l’ eco della soneria si dilegua — non dura che un istante — e appena cessato un’ilarità leggera e mal contenuta circola dappertutto. E la musica respira di nuovo e i sogni rivivono e si contorcono qua e là più allegramente che mai, riflettendo il colore delle finestre per le quali passano a torrenti i raggi dei treppiedi.
Ma nella camera che è laggiù a ponente, ora, nessuna maschera ha l’ ardore di avventurarcisi; perché la notte è avanzata e una luce più rossa affluisce traverso ai vetri color sangue e il nero dei drappi funebri è spaventoso e allo spensierato che metta i piedi sul funebre tappeto, l’orologio d’ebano manda un suono più pesante, più solennemente energico che quello da cui son colpiti gli orecchi delle maschere che turbinano nella lontana noncuranza delle altre sale.

Quanto alle altre stanze quelle formicolavano di persone e il cuore della vita vi batteva febbrilmente. La festa tumultuava sempre quando finalmente l’ orologio diede il suono della mezzanotte. Allora la musica cessò; la danza fu sospesa e per tutto si fece, come prima, un’immobilità ansiosa. Questa volta però la pendola stava scoccando dodici colpi; perciò è probabile che s’insinuasse un pensiero più lungo nella mente di quelli che in mezzo a quella folla festosa erano già pensosi. Per questo forse avvenne anche che molte persone di quell’accolta, prima che l’ultima eco dell’ultimo colpo fosse sprofondata nel silenzio, avevano avuto il tempo di accorgersi della presenza di una maschera che fino allora non aveva attratto l’attenzione. E la nuova di questa intrusione si era presto sparsa con un bisbiglio all’intorno, poi con un brusio a tutta l’assemblea ed un mormorare significativo di meraviglia, di disapprovazione e quindi di terrore, di disgusto. In una riunione di fantasmi quale l’ho descritta ci voleva certo un’apparizione straordinaria per produrre un tale effetto. La licenza carnevalesca di quella notte era, è vero, quasi senza limiti; ma il personaggio suddetto aveva oltrepassato la stravaganza di un Erode e superati i limiti — pure larghissimi — della convenienza imposta dal principe. Ci sono, nel cuore dei più spensierati, delle corde che non possono esser toccate senza produrre emozione. Anche nei più pervertiti, per i quali la vita e la morte sono ugualmente motivo di beffa, ci sono delle cose con le quali non si può scherzare. Tutta l’assemblea parve sentire profondamente il cattivo gusto e la sconvenienza della condotta e del travestimento dello straniero. Il personaggio era alto e scarno, avvolto dalla testa ai piedi in un sudario. La maschera che celava il viso rappresentava così bene la rigidità della fisionomia di un cadavere che la più minuziosa analisi difficilmente avrebbe scoperto l’inganno. Eppure tutti quei pazzi gai avrebbero forse sopportato se non approvato quel brutto scherzo; ma il travestimento aveva spinto tanto oltre la sfrontatezza da assumere le sembianze della Morte Rossa. Il vestito era chiazzato di sangue e la sua larga fronte, come del resto tutta la faccia, erano cosparsi di quel terribile color scarlatto.
Quando gli occhi del principe Prospero si posarono su quella figura di spettro — il quale con un muovere lento, solenne, affettato, girava qua e là fra i ballerini— esso fu visto dapprima sconvolgersi in un brivido violento di paura o di ripugnanza; ma subito dopo la fronte gli s’ infiammò di rabbia.


— Chi osa, — domandò con voce roca ai cortigiani ritti intorno a lui — chi osa insultarci così con questo scherno che pare bestemmia ? Impadronitevi di lui e toglieteli la maschera, affinché sapremo chi dovremo appiccare ai merli della torre al levar del sole. —
Quando il principe Prospero pronunziò queste parole era nella camera Est, o azzurra. La sua voce rimbombò forte e chiara a traverso le sette stanze, perché il principe era un uomo imperioso e robusto, e la musica ad un suo cenno di mano s’era taciuta.
Il principe dunque era nella camera azzurra con un gruppo di cortigiani pallidi al suo fianco. Dapprima, mentre parlava, ci fu nel gruppo un leggero movimento innanzi verso l’intruso, che per un momento fu vicino a loro quasi da toccarli, ed ora con passo sicuro e maestoso si avvicinava sempre più al principe. Ma quel certo terrore indefinibile ispirato a tutta la compagnia dall’audacia insensata dalla maschera, fece sì che nessuno osò mettergli le mani addosso; cosicché non trovando nessun ostacolo, passò a due metri dalla persona del principe e mentre l’immensa assemblea, come obbedendo a un sol movimento indietreggiava dal centro della sala verso i muri, continuò la sua strada senza fermarsi, con lo stesso passo solenne e misurato che fin dal principio l’aveva contraddistinta, andando dalla camera azzurra alla camera rossa — da questa a quella verde — dalla verde all’arancione, da quella alla bianca — e poi alla violetta, prima che nessuno avesse fatto un movimento decisivo per fermarla. Tuttavia il principe Prospero esasperato dalla rabbia e la vergogna della sua momentanea debolezza si slanciò precipitosamente attraverso le sei stanze, dove nessuno lo seguì; perché un nuovo terrore si era impadronito di tutti.
Egli brandiva un pugnale e si era avvicinato impetuosamente al fantasma che batteva in ritirata, quando quest’ultimo, arrivato in fondo alla sala dai velluti, si volse bruscamente e fece fronte a quello che lo inseguiva. Un grido acuto si levò, e il pugnale scivolò con un lampeggiamento sul tappeto funereo sul quale il principe Prospero un secondo dopo cadeva, morto.
Allora, chiamando a raccolta il coraggio violento della disperazione, una folla di maschere si precipitò nella sala nera; ma afferrando lo sconosciuto che stava diritto e immobile come una grande statua nell’ombra dell’orologio di ebano, tutti si sentirono soffocati da un terrore indicibile, vedendo che sotto il lenzuolo e la maschera cadaverica che avevano abbrancata con sì violenta energia non si trovava nessuna forma tangibile.
Allora fu riconosciuta la presenza della Morte Rossa. Come un ladro, di notte essa era sopraggiunta. E tutti i convitati caddero uno ad uno nelle sale dell’orgia bagnate da una rugiada sanguinosa ed ognuno morì nella disperata postura in cui era caduto soccombendo. E la vita dell’orologio d’ebano si spense con quella dell’ultimo di quei personaggi festanti. Le fiamme dei treppiedi spirarono. E le tenebre, la rovina e la Morte Rossa distesero su tutte le cose il loro dominio sconfinato. 


La mascherata della Morte Rossa _ Edgar Allan Poe

giovedì 1 ottobre 2015

Ottobre 2015 #Uscite in libreria

 
Con ottobre arrivano i primi freddi e il mio unico desiderio è quello di restare in casa a poltrire, avvolta nei golfini della nonna, una tazza calda di tè/latte/caffè e un buon libro come amici del cuore.
E a proposito di libri, in questo mese ventoso e arancione vediamo il ritorno di Zerocalcare, due antologie di racconti e due romanzi interessanti.

domenica 13 settembre 2015

Il ritratto di Dorian Gray #I classici della domenica



Difficile dire qualcosa che non risulti scontato su uno dei capolavori della letteratura mondiale quale Il ritratto di Dorian Gray, scritto nel 1890 da Oscar Wilde.
Non mi perderò nel riassumere la trama che, bene o male, tutti conoscono e che può essere trovata ovunque; farò un’analisi per lo più soggettiva, tratta dalle mie sensazioni, tanto più che di sensi si parla per tutto il romanzo.



Dorian Gray è un personaggio complesso, incerto, e ciò è dovuto alla sua evoluzione nell’arco della storia; da giovane innocente e puro _viziato e vanitoso, certo, ma pur sempre incorrotto_ , a dandy sfrenato, a tratti fieramente malvagio, in altri titubante e compassionevole.
Una marionetta vuota che si lascia riempire e indottrinare dai sofismi finemente infiocchettati di Lord Henry Wotton, uomo privo di remore e votato ad un unico ideale: la bellezza.
Come se l’accorato discorso di quest’ultimo sulla gioventù fosse una formula magica, alla vista del ritratto di Basil, Dorian si rende conto pienamente e realmente della sua straordinaria bellezza; come in una sorta di epifania joyciana, alla vista della sua immagine, Dorian comprende l’importanza del suo aspetto e della sua giovane età, invocando quel fatale sortilegio che segnerà irrevocabilmente la sua vita.

Dominato da una volontà influenzabile, sarà poi il libro di Huysmans, À rebours, a plasmarlo definitivamente: Dorian Gray resta affascinato dalla vita di Des Esseintes e ne imita la ricerca dei sensi e dello stile; curioso, però, come il finale del romanzo di Huysmans non funga da monito per l’eterno adone.

Con l’atto di relegare il dipinto maledetto lontano dalla sua vista, Dorian ha scelto definitivamente la sua strada, quella di una vita vuota, votata esclusivamente al piacere, in tutte le sue forme, che si tramuta spesso in comportamenti trasgressivi ed immorali. Dorian sembra non avere coscienza, sebbene in alcuni barlumi di lucidità, si renda conto della sua natura insensibile e ne provi pietà.
La sua fine rispecchia il suo animo vile e ormai corrotto: volendo cambiare vita, egli comunque si rifiuta di confessare pubblicamente le sue colpe, unico vero modo per espiare i suoi peccati, preferendo distruggere il quadro piuttosto che vederlo ritornare al suo originale splendore; tutto questo perché la sua volontà di cambiamento è puramente fittizia. Il problema è che l’uomo non tiene in conto che distruggendo il dipinto, distrugge al contempo la sua stessa anima e, non potendo il corpo vivere senza di essa, provoca la sua stessa morte.


La vera maledizione per Dorian non è tanto la sua eterna giovinezza, quanto il poter vedere gli effetti della sua condotta sulla sua anima; anche lord Wotton, responsabile della corruzione del giovane, conduce la stessa vita di Dorian, eppure il suo destino non viene macchiato dai suoi peccati, e anzi, se si vuole lord Wotton è perfino peggiore di Dorian, dato che quest’ultimo, almeno qualche volta conosce i rimorsi della coscienza, al contrario del suo amico, completamente amorale.
Forse Wilde condanna il giovane, non per il suo comportamento in sé, ma per la mancanza dei segni che questo dovrebbe tracciare sul suo volto; per tutto il romanzo infatti si gioca su quella convinzione tipicamente rinascimentale della corrispondenza esistente tra lo spirito e il corpo, per cui le persone fisicamente belle sono persone morali, pure, mentre quelle brutte sono immorali, malvagie.


Se Controcorrente del già citato Huysmans viene considerato la Bibbia del decadentismo, Il ritratto di Dorian Gray rappresenta la Bibbia dell’estetismo; interamente imperniato sulla filosofia edonista, alla quale l’estetismo si riconduce, il finale si espleta in quella massima di Théophile Gautier ( il cui concetto può essere precedentemente ritrovato in Poe, per dirne uno ) che ne è il caposaldo della dottrina: art for art’s sake, l’arte per l’arte.
Il tragico epilogo de Il ritratto di Dorian Gray non ha niente a che fare con l’eventuale insegnamento morale che se ne potrebbe trarre, in quanto come afferma lo stesso Wilde nell’introduzione al romanzo:

Non esistono libri morali o immorali. I libri sono scritti bene, o male. Questo è tutto.”
Il ripristinarsi del primigenio aspetto della tela rappresenta la totale vittoria dell’arte sulla vita dell’uomo; mentre Dorian Gray muore, il suo aspetto tramutato orrendamente, il dipinto trionfa, magnifico, eterno e indistruttibile.

Conclusioni
Wilde rielabora in chiave moderna il mito del Faust, il tema del doppio e il topos dell’eterna giovinezza regalandoci una trama estremamente affascinante, ma lo stile esageratamente ricercato nella forma e, soprattutto, nei dialoghi, impregnati di aforismi, paradossi ed un’onnipresente retorica epicurea, rendono la lettura a tratti pesante; i riferimenti letterari e intellettuali da parte di Wilde sono numerosi e quasi mai ne cita la fonte.
Come scrisse l’autore irlandese:

” Ho appena terminato il mio primo racconto lungo, e sono esausto. Temo che sia come la mia vita – tutta conversazione e niente azione. Non sono capace di descrivere le azioni: i miei personaggi stanno seduti in poltrona, e conversano.”
Esatto. Nell’ultima parte del romanzo la storia prende più vita, troviamo un Dorian Gray sempre più sconfitto e stanco, in cui si percepisce l’imminente apice della vicenda, recuperando un po’ di quella scioltezza narrativa che scarseggia per buona parte del libro.
Comunque sia, Il ritratto di Dorian Gray è una lettura imprescindibile e doverosa.


 
Voto: ★★★½

" Basil Hallward è quello che credo di essere, Henry Wotton è come il mondo mi dipinge e Dorian Gray è quello che mi piacerebbe essere." Oscar Wilde in una lettera a Ralph Payne.
” Basil Hallward è quello che credo di essere, Henry Wotton è come il mondo mi dipinge e Dorian Gray è quello che mi piacerebbe essere.” Oscar Wilde in una lettera a Ralph Payne.


lunedì 7 settembre 2015

Uomini e topi #Lunedì narrativa

Uomini e topi è un romanzo breve di John Steinbeck, pubblicato nel 1937 e tradotto in Italia da Cesare Pavese, che racchiude in sé quei temi precipui che lo scrittore americano affronterà anche in altri romanzi.



Il titolo si rifà ai versi della poesia A un topo, del poeta scozzese Robert Burns:

Ma, topolino, non sei il solo
A provare che la previdenza può essere vana:
I piani più accurati dei Topi e degli Uomini
Vanno spesso storti,
E non ci lasciano che dolore e pena,
Invece della gioia promessa!

Che differenza c’è tra gli uomini e i topi?
Due braccianti in cerca di fortuna nella desolata landa californiana della grande depressione. Due compagni di viaggio, due amici, George e Lennie, animati da un sogno: il desiderio di possedere, un giorno, una tenuta tutta loro.
Al ranch Soledad, dove i due trovano lavoro, il mite Lennie viene subito notato per la sua forza poderosa e la sua mente infantile; colto da un ritardo mentale, il giovane è ossessionato da tutto ciò che risulti soffice al tatto, motivo per il quale spesso, in mancanza di qualcosa di più morbido, Lennie cattura topolini da accarezzare, spesso con troppo vigore, finendo con l’ucciderli.
Le dure giornate di fatica e sudore al ranch si trascinano animate dal sogno dei due uomini, il sogno della casa coi conigli, il desiderio di una vita migliore.
Finché un giorno, Lennie combina involontariamente un ‘guaio’, e al suo compagno George non resta che un’unica, estrema e dolorosissima, cosa da fare.

” Mi piace carezzare le belle cose. Una volta ho veduto alla fiera dei conigli dal pelo lungo. Erano così belli, vi dico. Qualche volta ho carezzato anche i topi, ma solo quando non trovavo altro.”
[…]
Prese a Lennie la mano e se la pose sul capo.

” Toccate in questo punto e sentirete come sono morbidi.”
Le grosse dita di Lennie presero a lisciarle i capelli.
” Non spettinatemi,” disse la ragazza.
Lennie disse: “Oh, che bello,” e lisciava più forte. ” Che bello.”
Soledad
L’ambientazione del romanzo si colloca tra gli scenari di una California selvaggia, indomita, in cui è la natura che regna sovrana e dove l’unica presenza dell’uomo si concentra prevalentemente all’interno di ranch solitari. Nel contesto naturalista del romanzo, è proprio in un ranch, tra uomini e animali, che si svolge prevalentemente l’intera vicenda.

Nel dominio non meglio specificato di Soledad (solitudine, ulteriore riferimento alla condizione dell’umano abbandono a se stessi), coabitano da una parte i braccianti, e dall’altra i padroni. Le bestie non sono altro che bestie.
In queste tre categorie figurano rispettivamente George, Slim, Carlson e il vecchio Candy, per quanto riguarda la figura del bracciante, del lavoratore, dell’oppresso; Curly, suo figlio e la moglie di Curly jr, per quanto riguarda la figura del padrone, del ricco, del potente.
Tra le bestie poi, oltre agli animali veri e propri, troviamo Crooks e Lennie.

Crooks, l’unico uomo di colore nel ranch, vive separatamente dagli altri braccianti:
[…] aveva la cuccetta nel ripostiglio dei finimenti, una baracchetta appoggiata alla parete del fienile.
Come un animale, Crooks vive in un ripostiglio, accanto agli altri animali, nel fienile.
E come una bestia scontrosa e selvatica, ormai chiuso in un guscio d’isolamento forzato, Crooks è restio ad avere quei contatti amichevoli ai quali non è abituato; quando Lennie tenta di fare amicizia con Crooks, lui è scorbutico e diffidente: d’altronde, se i bianchi non vogliono avere niente a che fare con lui, lui non vuole avere niente a che fare con loro. Quando però Lennie non dà cenno di volersene andare, Crooks lo lascia entrare nella sua stanza e comincia un monologo sulla sua solitudine, sul suo bisogno, nonostante tutto, di avere accanto qualcuno con cui parlare, come del resto tutti gli esseri umani.
Vittima perenne dei bianchi, Crooks si vendica su Lennie, il più fragile a sua volta nella catena sociale, ulteriore dimostrazione di una natura crudele in cui vige “la legge del più forte”, dove il forte se la rifà sul più debole, secondo una severa gerarchia sociale e biologica.
 
” Dicevo supponete che George sia andato in città questa notte e voi non ne sappiate mai più nulla.”
Crooks spingeva a fondo a una sua specie di segreta vittoria. ” Supponete ciò, ” ripeté.
” Non farà questo, ” gridò Lennie. ” George non farebbe mai questo. Da tanto tempo siamo insieme. Questa notte ritornerà…” ma quel dubbio era troppo, per lui. “Voi dite che non tornerà!”
Il viso di Crooks si rischiarò di gioia alla tortura di Lennie.
Lennie a sua volta rientra nel gruppo degli animali: lento d’intelligenza, è però forte come un toro, come un cavallo, come un animale da soma. Lennie si riduce a questo: un animale innocente e senza coscienza.
Non a caso, sia il cane di Candy, sia Lennie, muoiono allo stesso modo: “proprio sotto la nuca”. Come un animale che non serve più, che è troppo debole per sopravvivere in un mondo troppo duro, il più forte decide di risparmiare al più debole la sofferenza, decidendo della sua vita.


La casa dei conigli
La voce di George si fece più cupa. Ripeteva le parole, cadenzate, come le avesse pronunciate tante volte. ” Gente come noi, che lavora nei ranches, è la gente più abbandonata del mondo. Non hanno famiglia. Non sono di nessun paese. Arrivano nel ranch e raccolgono una paga, poi vanno in città e gettano via la paga, e l’indomani sono già in cammino alla ricerca di lavoro e d’un altro ranch. Non hanno niente da pensare per l’indomani.”
Lennie era felice. ” È così, è così. E adesso dimmi com’è per noi.”
George riprese. ” Per noi è diverso. Noi abbiamo un avvenire. Noi abbiamo qualcuno a cui parlare, a cui importa qualcosa di noi. Non ci tocca di sederci all’osteria e gettar via i nostri soldi, solamente perché non c’è un altro posto dove andare. Ma se quegl’altri li mettono in prigione, possono crepare perché a nessuno gliene importa. Noi invece è diverso.”
Lennie interruppe. ” Noi invece è diverso! E perché? Perché…perché ci sei tu che pensi a me e ci sono io che penso a te, ecco perché.”
Rise beato. ” Va avanti, George.”
” Lo sai a memoria. Puoi dirlo da te.”
” No, tu. Ho dimenticato qualcosa. Dimmi come sarà un giorno.”
” Va bene. Un giorno…avremo messo insieme i soldi e ci sarà una casetta con un pezzo di terreno e una mucca e i maiali e…”
” E vivremo del grasso della terra,” urlò Lennie.
” E terremo i conigli. Va avanti, George! Di quel che avremo nell’orto e i conigli nelle gabbie e la pioggia d’inverno e la stufa; dì come sarà spessa la panna sul latte che non lo potremo tagliare. Dì tutto questo, George.”
” E perché non lo dici tu? Lo sai benissimo.”
” No… dillo tu. Non è lo stesso, se lo dico io. Va avanti…George. Dì come accudirò ai conigli.”
” Allora, ” disse George, ” Avremo una grande aiuola d’erba e una conigliera e le galline. E quando pioverà d’inverno, diremo ‘ Al diavolo il lavoro’ e accenderemo un grande fuoco nella stufa e staremo seduti ascoltando la pioggia cadere sul tetto…
Ciò che spinge avanti George e Lennie è il desiderio di riuscire ad avere una casa loro, in cui vivere del proprio lavoro e allevare conigli.
La casa e, soprattutto, i conigli sono il chiodo fisso del dolce Lennie, che non smette mai di chiedere a George di raccontargli per filo e per segno l’intera fiaba _ perché è a questo che si riduce_, e George ogni volta gliela ripete pazientemente, come un mantra.
La casa dei conigli non è altro che un sogno, un’utopia che si trasforma in una verità schiacciante e crudele, annichilente: il sogno americano non esiste più, è un’illusione, è morto.
 
George disse sommesso: “…Credo che lo sapevo fin da principio. Lo sapevo che non ci saremmo mai arrivati. A lui piaceva tanto sentirne parlare che anch’io ho creduto fosse possibile.”
” Allora… tutto è finito? “, disse Candy costernato.
Conclusioni
La potenza drammatica di questa storia, la tragicità, il pathos, tutto trasuda da queste poche ma intense pagine. Più di un microcosmo, durante la lettura del romanzo il ranch diventa il mondo; Steinbeck, in poco più di cento pagine, è riuscito a ricreare dei personaggi reali, veri, sinceri, tutti animati da brutalità e sofferenza, da speranza e disincanto, e a ritrarre quella condizione umana di degrado e umiliazione che risulta universale.

Uomini e topi è un romanzo verista in cui il concetto dell’ostrica è potenziato fino all’estremo: se nasci topo, non riuscirai mai a diventare uomo, ma entrambi siete esseri deboli e fragili, delicati: basta una carezza o una scrollata troppo forte e di voi non resta che un corpo senza vita.
Alla fine, non c’è poi tanta differenza tra uomini e topi.


Ma, topolino, non sei il solo
A provare che la previdenza può essere vana:
I piani più accurati dei Topi e degli Uomini
Vanno spesso storti,
E non ci lasciano che dolore e pena,
Invece della gioia promessa!
Voto: ★★★★★

giovedì 3 settembre 2015

Settembre 2015 #Uscite in libreria




Le vacanze sono finite e si torna alla solita vita di tutti i giorni. Per fortuna esistono i libri, e anche settembre ne vede di nuovi.



venerdì 21 agosto 2015

Gotico americano #I brividi del venerdì

È veramente esistito un G. Gordon Gregg.
Gli studenti di storia americana possono riconoscerlo come Herman W. Mudgett, sebbene lui preferisse lo pseudonimo allitterativo di H.H. Holmes.
( Dalla postfazione di Gotico americano )



Siamo nel 1893, l’anno della Fiera Mondiale Colombiana _ una sorta di antenato del moderno Expo _ , inaugurata a Chicago per festeggiare i 400 anni dalla scoperta dell’America.
Nei pressi della Fiera, G. Gordon Gregg ha fatto costruire “il Castello”, un palazzo dalle fattezze di un maniero, adibito al contempo come farmacia e albergo. Il Castello possiede infatti numerose stanze, alcune delle quali del tutto celate alla vista, collegate fra loro tramite ingegnosi passaggi segreti. Una stravaganza calcolata dal suddetto farmacista per mettere in atto indisturbato i suoi crimini: il dottor Gregg, infatti, è un sadico assassino, oltre che un avido truffatore.
Così, per una serie di eventi, la giovane giornalista Crystal fa la sua conoscenza con il presunto dottore e, dopo aver indagato sul suo passato, comincia a collegare tra loro le scomparse di alcune donne e a sospettare dell’uomo.
Crystal decide di investigare in prima persona, anche se la cosa si rivelerà più complicata del previsto, nonché più pericolosa.


I mostri non esistono
Non è la prima volta che Robert Bloch prende spunto dalla realtà per i personaggi delle sue storie; in Psycho, il romanzo più famoso dell’autore, l’altalenante figura di Norman Bates era stata ispirata da Ed Gein, il “Macellaio di Plainfield”, noto per aver “addobbato” la sua casa con parti di corpi umani.
Il protagonista di Gotico americano risponde invece alla figura di un altro famoso serial killer, H.H. Holmes, il cui vero nome era Herman Webster Mudgett, al quale vengono attribuiti più di un centinaio di omicidi.
Esattamente come accade nel libro, Holmes fece costruire un palazzo di tre piani, denominato “il Castello”, dove passaggi segreti, labirinti e cunicoli senza uscita fungevano da vere e proprie trappole mortali per le sue vittime.

H.H. Holmes e il suo "Castello".
H.H. Holmes e il suo “Castello”.
Ma contrariamente ad Holmes, la finalità dell’omicidio per Gregg non è esclusivamente il piacere sadico e perverso che ne ricava (sebbene poi conservi i cuori delle sue vittime sotto vetro), ma il profitto economico che ne può guadagnare.
Altra differenza rispetto al vero serial killer, sta nel comportamento e nelle peculiarità del personaggio fittizio: uomo estremamente affascinante e galante, il dr Gregg può contare anche sulle sue doti di eccellente ipnotista che, oltre ai suoi modi da perfetto gentleman, gli permettono di attirare facilmente le sue vittime, per lo più donne, che seduce con false promesse di matrimonio e amore eterno; ma come un moderno Barbablù, le future mogli vengono opportunamente eliminate nel momento in cui Gregg ha raggiunto il suo scopo, ovvero svuotarne il conto in banca.


Conclusioni
Da una vicenda reale intrigante, per quanto macabra, Bloch ne ha ricavato una trama piuttosto insipida, con personaggi fastidiosamente ridicoli, a tratti stereotipati, dotati di una caratterizzazione psicologica alquanto spicciola e banale, il tutto accompagnato da uno stile narrativo puerile.
I sospetti, le deduzioni e le scoperte di Crystal riguardo il dottore sono dettate esclusivamente dalla volontà dell’autore che non sa come fare per avviare la storia, ma non vengono supportate da fatti concreti.


Insomma, prometteva bene ma si è rivelato un fiasco. Questa volta, per me, Bloch ha toppato.
Molto meglio i racconti.


Voto: ★★

giovedì 13 agosto 2015

La Maschera della Morte Rossa #Il Fumetto

Avete presente il racconto “La mascherata della morte rossa” di Edgar Allan Poe?
Ecco, allora potete leggere l’omonima graphic novel, edita Kleiner Flug, scritta da Marco Rocchi e disegnata da Giuseppe Dell’Olio.

Ispirato al racconto dell’autore noir per eccellenza, questo fumetto ne riprende le fila per evolverne la trama e mostrare gli avvenimenti che si susseguono all’interno del castello del principe Prospero durante l’isolamento coatto per sfuggire alla temibile epidemia di peste, nota con il nome di Morte Rossa.

 

Per intrattenere i suoi ospiti e sfuggire alla noia della prolungata clausura, Prospero organizza una grande festa, suddivisa in sette stanze: ogni stanza è dedicata a un dato piacere e colore, ed è presieduta da uno dei sette lord più fedeli del sovrano.
Piaceri discutibili, piaceri promiscui e perversi ai quali lasciarsi impunemente andare, mentre aldilà delle mura cintate impervia la morte.
Non tutti però sono dediti ai festeggiamenti; c’è infatti un giovane menestrello in cerca di una vendetta che non esiterà a compiere, grazie al patto con la Morte Rossa stessa.

In questa rivisitazione moderna, il principe Prospero e la sua corte vengono ritratti ancora più malvagi e senza remore di come non sia in realtà nel racconto di Poe.

Le sette stanze dedicate a sette piaceri diversi, rappresentano chiaramente i sette vizi capitali.
Rispetto al racconto, più velato, più misterioso e poetico, il fumetto perde la sua delicatezza grazie alle esplicite scene disegnate e ad una trama resa ancora più dark e, in senso lato, più ‘volgare’.
I disegni ‘sporchi’, volutamente spuri, grotteschi, e le tonalità scure e cupe, contribuiscono a rendere l’atmosfera del racconto illustrato ulteriormente macabra.




 
Conclusioni
L’idea di fondo è buona, i disegni sono apprezzabili, congeniali alla cupezza della storia.
Ma, c’è un ma; la trama e la sua trasposizione grafica, condensata in una novantina di pagine, l’ho trovata troppo frettolosa, grezza, a tratti grossolana.
In definitiva, lascia poco. Poteva uscirne qualcosa di più ricercato con un po’ di studio in più.
Al costo di 17 euro, lo consiglio per i veri appassionati.


Voto: ★★★

lunedì 13 luglio 2015

Buio a mezzogiorno #Lunedì narrativa

Sulla conturbante scena del Novecento, numerosi sono i romanzi che hanno fatto la differenza; Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler è sicuramente da ritenersi uno di questi.
Il titolo, di per sé eloquente, se non addirittura esegetico, racchiude l’intero pensiero dell’autore e del suo protagonista, Rubasciov.

“Il vecchio male” pensò Rubasciov. “I rivoluzionari non dovrebbero pensare con la mente degli altri.
“O dovrebbero, invece? Sicuramente?
“Come si può cambiare il mondo, se ci si identifica con chiunque?
“Come si potrebbe diversamente cambiarlo?
“Colui che comprende e perdona…dove può trovare un motivo per agire?
“Dove non lo troverebbe?”


È piena notte quando Rubasciov viene prelevato dal suo appartamento e trasferito in carcere. Con un’accusa di tradimento non meglio specificata, Nicolaj Salmanovic Rubasciov, personaggio importante del partito comunista, viene arrestato e rinchiuso nella cella dove avrà inizio il suo personale calvario etico-spirituale.
Durante la sua prigionia, Rubasciov ha modo di ripensare al movimento al quale ha dedicato la sua intera esistenza, analizzandone i processi evolutivi, i suoi meccanismi più intrinsechi, evidenziandone le debolezze e le mancanze, il tutto con una lucida criticità che ne ripercorre, passo dopo passo, i cambiamenti e i fenomeni che hanno portato all’attuale sistema, al cui vertice si trova inossidabile il N°1.
Tra prese di posizione e debilitazioni fisiche, assistiamo al mutamento interiore di Rubasciov, dove alla logica ferrea del partito viene a sostituirsi una coscienza morale, rimasta dormiente e assoggettata ai compiti e i desideri del fine ultimo del partito, e che adesso riemerge in tutta la sua potenza nella ‘finzione grammaticale’.
Il risultato è un’amara capitolazione.


La politica del N°1
“Dunque, aveva fatto la Guerra civile, dopo tutto” pensò Rubasciov. Ma eran cose d’altri tempi, ormai, e non facevano più differenza.
Sebbene il personaggio di Rubasciov sia fittizio, la sua vicenda si rifà ad eventi realmente accaduti durante il regime staliniano, noto anche come Grande terrore, caratterizzato dalle cosiddette ‘purghe’, nel quale un qualsiasi parere avverso a quello del regime poteva trasformarsi in un’accusa di tradimento. Nel romanzo, poi, Koestler descrive come queste accuse vengano avvalorate da false prove, costruite per lo più sulla base di un’austera logica di causa-effetto, di supposizioni consequenziali, poco importa se nulla hanno a che fare con la realtà dei fatti.
Tutto questo perché “ ciò che viene presentato come giusto deve risplendere come oro, ciò che viene presentato come erroneo deve essere nero come la pece. “. Il comunismo, sotto le fila di Stalin, diventa più di un movimento politico, esso si sostituisce completamente alla religione, diventando esso stesso una religione, con i suoi dogmi e i suoi credo incontrovertibili; chiunque non rispetti ciecamente la volontà del partito, chiunque non abbia abbastanza fede, viene automaticamente epurato, eliminato, in virtù di un bene più grande: il mantenimento del potere del comunismo, per far sì che la Rivoluzione non venga rovesciata in alcun modo.
Non importa se si è servito il partito per tutta la vita, non importano i sacrifici fatti sino a quel momento: i ritratti degli ex componenti del partito, di coloro che hanno fatto la Rivoluzione ed hanno contribuito alla sua vittoria, vengono cancellati dalle fotografie una volta appese al muro; i libri ritenuti contrari all’ideologia dominante, banditi dalle biblioteche; tutto può ribaltarsi in un istante, in quel fatidico istante in cui si inizia a pensare con la propria testa _ impossibile non pensare al 1984 di Orwell _.


La finzione grammaticale
Tanto peggio per colui che prendeva sul serio quella commedia e che vedeva solo quanto avveniva sul palcoscenico e non il meccanismo dietro le quinte.
Durante la sua carriera politica all’interno del partito, Rubasciov ha spesso eseguito incarichi scomodi, liquidando membri del movimento accusati di controrivoluzione e, nonostante la palese montatura dell’accusa, il non ancora ex commissario del popolo, ha sempre obbedito agli ordini, pur talvolta non ritenendoli personalmente giusti, senza obiettare; questo perché nella politica del comunismo non c’è spazio per i moralismi: l’unica morale che conta è quella del partito, una morale quindi riarticolata in base alle esigenze di quest’ultimo. Nel comunismo prevale infatti un’etica che ricorda in qualche misura l’Utilitarismo, per cui il giusto equivale all’utile ed il male al dannoso.
In una tale ottica si perde di conseguenza il valore dell’individuo, in quanto si agisce in virtù di un simbolico popolo, ” una moltitudine di un milione divisa per un milione “.
Un’etica rivoluzionaria, per citare Weber, in cui per il bene ultimo (l’utopia di un mondo comunista) l’uso della violenza è legittimato e vale il principio machiavelliano de “il fine giustifica i mezzi”.
La coscienza verso il singolo non esiste, in quanto la propria responsabilità è verso il principio.


Ma durante la prigionia, i ricordi di Rubasciov riemergono prepotenti e con essi quella che lui chiama ‘finzione grammaticale’, che altro non è che il suo inconscio, la sua coscienza, il suo ‘io’ più intimo. Manifestandosi negli improvvisi flashback, nel gesto meccanico di strofinarsi il pince-nez sulla manica e con un pulsante mal di denti, Rubasciov inizialmente cerca di combattere con tutte le sue forze questa verità latente, che adesso vuole emergere, rimettendo le sue azioni ad un giudizio più grande di quello degli uomini, ovvero a quello della Storia.
“La Storia non conosce né scrupoli né esitazioni”, aveva detto a uno di quegli sventurati. “Scorre, inerte e infallibile, verso la sua meta. Ad ogni curva del suo corso lascia il fango che porta con sé i cadaveri degli affogati. La Storia sa dove va. Non commette errori. Colui che non
ha una fede assoluta nella Storia non è nelle file del partito”.
Finché, al grido disperato del suo amico Bogrov mentre viene portato via per essere fucilato, la razionalità cede il posto alla presa di coscienza. Il lamento di quel singolo uomo porta Rubasciov a capovolgere completamente il suo pensiero. Ecco che il bene ultimo perde la sua logica se a discapito del singolo, che riacquista quindi la sua importanza, il suo valore intrinseco ed inviolabile.

Stremato dalle torture psicofisiche a cui viene sottoposto ed intrapreso il nuovo percorso dell”io’, Rubasciov ammette di essere colpevole, non di attività controrivoluzionarie, ma di aver dato adito alla sua coscienza interiore, di aver anteposto la sua riscoperta dell’individuo alla cieca fede nel partito, per il quale l’individuo non ha alcuna importanza, non esiste.
Intrappolato in una sorta di crisi esistenziale, tra la sua nuova posizione ed il credo di tutta una vita, Rubasciov, consapevole che la vecchia generazione della sua epoca è ormai finita in favore dei nuovi uomini di Neanderthal, si arrende all’inevitabile, scoprendosi desideroso solamente di dormire, per sempre.


Conclusioni

Scritto nel 1940, Buio a mezzogiorno è un romanzo di denuncia degli orrori e dei meccanismi che si trovano dietro i processi staliniani, per altro attualissimi a quell’epoca.
Allo stesso tempo Koestler affronta quel problema di fondo tra l’ideale comunista e la sua messa in pratica nel regime stalinista, tra la dignità del singolo e la ragione della Storia.
Il dibattito principale riguarda l’etica all’interno della politica, e numerosi sono i riferimenti filosofici, da Hegel a Weber.
Un romanzo complesso quindi, ma terribilmente valido e importante, arricchito da uno stile narrativo impeccabile, fluente ma allo stesso tempo sapiente, affatto noioso o pedante.
Inutile aggiungere che lo consiglio caldamente.


Voto: ★★★★★