Io amo ottobre.
Le zucche, le foglie, le caldarroste… La pioggia, il tè caldo… Il plaid, i libri.
E quindi, ebbene sì, anche quest’anno riparte il “Ciclo di Halloween”,
stavolta dedicato ai racconti dell’orrore dei grandi maestri del passato
e del presente.
Spero che i racconti che ho scelto vi piacciano…
E vi spaventino.
Da
lungo tempo la Morte Rossa devastava il paese. Nessuna pestilenza era
mai stata così fatale, così spaventosa. Il sangue era la sua
manifestazione e il suo sigillo: il rosso e l’orrore del sangue.
Provocava dolori acuti, improvvise vertigini, poi un abbondante
sanguinare dai pori, e infine la dissoluzione. Le macchie scarlatte sul
corpo e soprattutto sul volto delle vittime erano il marchio della
pestilenza che le escludeva da ogni aiuto e simpatia dei loro simili.
L’intero processo della malattia: l’attacco, l’avanzamento e la
conclusione duravano non più di mezz’ora.
Ma il principe Prospero era felice, coraggioso e sagace. E, quando le
sue terre furono per metà spopolate, egli convoco un migliaio di amici
sani e spensierati, scelti fra i cavalieri e le dame della sua corte, e
si ritirò con loro in totale isolamento in una delle sue roccaforti. Era
una costruzione immensa, magnifica, una creazione che corrispondeva al
gusto eccentrico e alla grandiosità del principe. Un muro forte ed
altissimo la circondava. Nel muro le porte erano di ferro. Una volta
entrati, i cortigiani presero incudini e martelli massicci e saldarono
le serrature. Impedivano così ogni possibilità di entrata o di uscita,
per improvvisi impulsi di disperazione o di frenesia, che potevano
nascere, in chi era dentro le mura. La fortezza era ampiamente fornita
di viveri. Con tutte queste precauzioni i cortigiani potevano
permettersi di sfidare il contagio. Il mondo esterno provvedesse a se
stesso. Era tutto sommato follia addolorarsi o pensarci troppo su. Il
principe aveva pensato a tutti i divertimenti possibili. C’erano
buffoni, improvvisatori, c’erano ballerini, musicanti, c’era la bellezza
e c’era il vino. Tutto chiuso là dentro. Fuori c’era la Morte Rossa.
Fu verso la fine del quinto o sesto
mese di questo isolamento, mentre la pestilenza tutt’intorno infuriava
al massimo, che il principe Prospero pensò di divertire i suoi mille
amici con un ballo mascherato di un insolito splendore.
Fu una messa in scena voluttuosa, questa mascherata. Innanzitutto però,
vorrei descrivere le stanze in cui si svolse. Sette stanze formavano un
unico maestoso appartamento. In molti palazzi, simili fughe di stanze
aprono a una veduta lunga e diritta; con le porte a due battenti che si
aprono verso le pareti permettendo di vedere tutto in un solo colpo
d’occhio. In questo caso invece la situazione era differente, come
d’altronde ci si poteva aspettare dall’amore del principe per il
bizzarro. Le camere erano disposte così irregolarmente da poter essere
viste soltanto una alla volta. C’era, ogni venti o trenta metri,
un’improvvisa svolta che apriva di conseguenza prospettive sempre
diverse. A destra e a sinistra, nel mezzo delle pareti, un’alta e
strettissima finestra gotica dava su un corridoio chiuso, che seguiva le
tortuosità dell’appartamento. Queste finestre, di vetro lavorato,
variavano di colore secondo la tinta dominante delle decorazioni di ogni
singola stanza. Quella situata all’estremità orientale aveva nella
decorazione una forte dominante blu, e blu erano le finestre. Negli
ornamenti e nelle tappezzerie della seconda stanza predominava il
purpureo e purpuree erano le vetrate. Tutta verde la terza, altrettanto
le finestre. La quarta era arredata in arancione e così anche illuminata
dello stesso colore, la quinta di bianco e la sesta di violetto. La
settima stanza invece era tutta avvolta in arazzi di velluto nero, che
pendevano dal soffitto e dalle pareti, ricadendo su tappeti della stessa
stoffa e colore. Era soltanto in questa stanza che il colore delle
finestre non corrispondeva a quello delle decorazioni. Le vetrate erano
di un colore scarlatto, di un cupo color sangue. Ebbene, nessuna delle
sette stanze con le loro decorazioni, pur ricca di ornamenti d’oro, era
illuminata da lampade o da candelabri. Non v’era luce di alcun genere
proveniente da candele o lampadari in questo succedersi di sale. Ma nei
corridoi che accompagnavano erano appoggiati pesanti tripodi che
sostenevano bracieri accesi, che, proiettando la loro luce raggiante
attraverso il vetro colorato, illuminavano così in modo abbagliante le
sale. Questo produceva un’infinità di immagini fantastiche. Ma nella
stanza nera, quella a occidente, l’effetto della luce e del fuoco che si
diffondeva sui drappi neri attraverso le rosse vetrate era talmente
spettrale e produceva un tale effetto irreale sulle fisionomie di chi
entrava, che nessuno aveva il coraggio di mettervi piede.
In questa sala si trovava pure, appoggiato contro la parete, un
gigantesco orologio d’ebano. Il pendolo andava e veniva con un tic-tac
sordo, emettendo un suono cupo e monotono e quando la lancetta dei
minuti compiva il giro del quadrante e batteva l’ora, veniva fuori dai
suoi polmoni di bronzo un suono chiaro, forte e profondo,
straordinariamente musicale ma di una tale forza, che a ogni ora i
musicisti dell’orchestra erano costretti a fermare l’esecuzione dei loro
pezzi, per ascoltare quel suono; e così anche le coppie interrompevano
le danze e su tutta l’allegra compagnia cadeva un velo di tristezza; e
mentre l’orologio scandiva ancora i suoi rintocchi si notava che i più
spensierati impallidivano e i più vecchi e sereni si passavano una mano
sulla fronte in un gesto di confusa visione o meditazione. Ma non appena
questi rintocchi tacevano, tutti erano subito presi da un sottile riso;
i musicanti si guardavano fra di loro e sorridevano quasi imbarazzati
del proprio nervosismo, e si promettevano che il prossimo scoccare della
pendola non li avrebbe più messi tanto a disagio; ma poi, dopo sessanta
minuti ( che sono esattamente tremilaseicento secondi del Tempo che
fugge ), quando tornavano a risuonare i rintocchi dell’orologio,
cresceva in loro lo stesso stato di smarrimento, di tremore e
meditazione.
Ma nonostante ciò era una gaia e magnifica orgia. Il gusto del duca era
del tutto speciale. Aveva l’ occhio sicuro per i colori e per gli
effetti. Egli disprezzava il decorus della moda; i suoi
progetti eran temerari e selvaggi, le sue concezioni avevano uno
splendore barbaro. Qualcuno l’avrebbe giudicato pazzo. I suoi cortigiani
sapevano bene che non era tale; ma bisognava sentirlo, vederlo,
toccarlo per esserne sicuri.
In occasione di quella festa aveva presieduto lui in gran parte alla
scelta dei mobili nei sette salotti e lo stile delle maschere era stato
osservato secondo il suo gusto. Erano certo delle invenzioni grottesche.
Era abbagliante, sfavillante — c’era anche del piccante e del
fantastico — molto di ciò che poi abbiamo veduto in Ernani. C’
erano delle facce arabe, ornate in una maniera assurda; invenzioni
mostruose e pazze; c’era del bello, del licenzioso e del bizzarro in
quantità; dell’orrido, ma poco; e cose ributtanti a volontà. A dirla in
breve era come una folla di sogni che si pavoneggiassero qua e là per le
sette stanze. E questi sogni si contorcevano in tutti i sensi,
prendendo il colore delle stanze; si sarebbe detto che eseguissero della
musica camminando, e che le arie strane dell’orchestra fossero un’eco
dei loro nasi.
Di tanto in tanto si sente suonare l’orologio di ebano nella stanza dei
velluti. E allora per un momento tutto si ferma e tace, eccetto il suono
dell’orologio. I sogni sono irrigiditi, paralizzati nelle loro
posizioni. Ma l’ eco della soneria si dilegua — non dura che un istante —
e appena cessato un’ilarità leggera e mal contenuta circola
dappertutto. E la musica respira di nuovo e i sogni rivivono e si
contorcono qua e là più allegramente che mai, riflettendo il colore
delle finestre per le quali passano a torrenti i raggi dei treppiedi.
Ma nella camera che è laggiù a ponente, ora, nessuna maschera ha l’
ardore di avventurarcisi; perché la notte è avanzata e una luce più
rossa affluisce traverso ai vetri color sangue e il nero dei drappi
funebri è spaventoso e allo spensierato che metta i piedi sul funebre
tappeto, l’orologio d’ebano manda un suono più pesante, più solennemente
energico che quello da cui son colpiti gli orecchi delle maschere che
turbinano nella lontana noncuranza delle altre sale.
Quanto alle altre stanze quelle formicolavano di persone e il cuore della vita
vi batteva febbrilmente. La festa tumultuava sempre quando finalmente
l’ orologio diede il suono della mezzanotte. Allora la musica cessò; la
danza fu sospesa e per tutto si fece, come prima, un’immobilità ansiosa.
Questa volta però la pendola stava scoccando dodici colpi; perciò è
probabile che s’insinuasse un pensiero più lungo nella mente di quelli
che in mezzo a quella folla festosa erano già pensosi. Per questo forse
avvenne anche che molte persone di quell’accolta, prima che l’ultima eco
dell’ultimo colpo fosse sprofondata nel silenzio, avevano avuto il
tempo di accorgersi della presenza di una maschera che fino allora non
aveva attratto l’attenzione. E la nuova di questa intrusione si era
presto sparsa con un bisbiglio all’intorno, poi con un brusio a tutta
l’assemblea ed un mormorare significativo di meraviglia, di
disapprovazione e quindi di terrore, di disgusto.
In una riunione di fantasmi quale l’ho
descritta ci voleva certo un’apparizione straordinaria per produrre un
tale effetto. La licenza carnevalesca di quella notte era, è vero, quasi
senza limiti; ma il personaggio suddetto aveva oltrepassato la
stravaganza di un Erode e superati i limiti — pure larghissimi — della
convenienza imposta dal principe. Ci sono, nel cuore dei più
spensierati, delle corde che non possono esser toccate senza produrre
emozione. Anche nei più pervertiti, per i quali la vita e la morte sono
ugualmente motivo di beffa, ci sono delle cose con le quali non si può
scherzare. Tutta l’assemblea parve sentire profondamente il cattivo
gusto e la sconvenienza della condotta e del travestimento dello
straniero. Il personaggio era alto e scarno, avvolto dalla testa ai
piedi in un sudario. La maschera che celava il viso rappresentava così
bene la rigidità della fisionomia di un cadavere che la più minuziosa
analisi difficilmente avrebbe scoperto l’inganno. Eppure tutti quei
pazzi gai avrebbero forse sopportato se non approvato quel brutto
scherzo; ma il travestimento aveva spinto tanto oltre la sfrontatezza da
assumere le sembianze della Morte Rossa. Il vestito era
chiazzato di sangue e la sua larga fronte, come del resto tutta la
faccia, erano cosparsi di quel terribile color scarlatto.
Quando gli occhi del principe Prospero si posarono su quella figura di
spettro — il quale con un muovere lento, solenne, affettato, girava qua e
là fra i ballerini— esso fu visto dapprima sconvolgersi in un brivido
violento di paura o di ripugnanza; ma subito dopo la fronte gli s’
infiammò di rabbia.
— Chi osa, — domandò con voce roca ai
cortigiani ritti intorno a lui — chi osa insultarci così con questo
scherno che pare bestemmia ? Impadronitevi di lui e toglieteli la
maschera, affinché sapremo chi dovremo appiccare ai merli della torre al
levar del sole. —
Quando il principe Prospero pronunziò queste parole era nella camera
Est, o azzurra. La sua voce rimbombò forte e chiara a traverso le sette
stanze, perché il principe era un uomo imperioso e robusto, e la musica
ad un suo cenno di mano s’era taciuta.
Il principe dunque era nella camera azzurra con un gruppo di cortigiani
pallidi al suo fianco. Dapprima, mentre parlava, ci fu nel gruppo un
leggero movimento innanzi verso l’intruso, che per un momento fu vicino a
loro quasi da toccarli, ed ora con passo sicuro e maestoso si
avvicinava sempre più al principe. Ma quel certo terrore indefinibile
ispirato a tutta la compagnia dall’audacia insensata dalla maschera,
fece sì che nessuno osò mettergli le mani addosso; cosicché non trovando
nessun ostacolo, passò a due metri dalla persona del principe e mentre
l’immensa assemblea, come obbedendo a un sol movimento indietreggiava
dal centro della sala verso i muri, continuò la sua strada senza
fermarsi, con lo stesso passo solenne e misurato che fin dal principio
l’aveva contraddistinta, andando dalla camera azzurra alla camera rossa —
da questa a quella verde — dalla verde all’arancione, da quella alla
bianca — e poi alla violetta, prima che nessuno avesse fatto un
movimento decisivo per fermarla. Tuttavia il principe Prospero
esasperato dalla rabbia e la vergogna della sua momentanea debolezza si
slanciò precipitosamente attraverso le sei stanze, dove nessuno lo
seguì; perché un nuovo terrore si era impadronito di tutti.
Egli brandiva un pugnale e si era avvicinato impetuosamente al fantasma
che batteva in ritirata, quando quest’ultimo, arrivato in fondo alla
sala dai velluti, si volse bruscamente e fece fronte a quello che lo
inseguiva. Un grido acuto si levò, e il pugnale scivolò con un
lampeggiamento sul tappeto funereo sul quale il principe Prospero un
secondo dopo cadeva, morto.
Allora, chiamando a raccolta il coraggio violento della disperazione,
una folla di maschere si precipitò nella sala nera; ma afferrando lo
sconosciuto che stava diritto e immobile come una grande statua
nell’ombra dell’orologio di ebano, tutti si sentirono soffocati da un
terrore indicibile, vedendo che sotto il lenzuolo e la maschera
cadaverica che avevano abbrancata con sì violenta energia non si trovava
nessuna forma tangibile.
Allora fu riconosciuta la presenza della Morte Rossa. Come un
ladro, di notte essa era sopraggiunta. E tutti i convitati caddero uno
ad uno nelle sale dell’orgia bagnate da una rugiada sanguinosa ed ognuno
morì nella disperata postura in cui era caduto soccombendo. E la vita
dell’orologio d’ebano si spense con quella dell’ultimo di quei
personaggi festanti. Le fiamme dei treppiedi spirarono. E le tenebre, la
rovina e la Morte Rossa distesero su tutte le cose il loro dominio
sconfinato.
La mascherata della Morte Rossa _ Edgar Allan Poe
Nessun commento:
Posta un commento