David
David Karnowski è il degno erede del nome che porta; famiglia mediamente benestante e dalla spiccata intelligenza, i Karnowski vantano nella loro genia una caratteristica dominante: la testardaggine. Così, quando David litiga con i membri della sinagoga di Melnitz, decide di lasciare il piccolo paesino della Polonia _rappresentante dell’oscurantismo ebraico, secondo David_ e partire alla volta di Berlino, la città dei lumi.
A niente valgono le suppliche dei suoceri e della moglie Lea, David Karnowski ha deciso: sarà la Germania berlinese la sua nuova patria.
Arrivato a Berlino, David non tarda a stringere amicizia con i più rispettati membri della città; compiaciuto del suo tedesco irreprensibile e della sua ampollosa cultura, David Karnowski guarda dall’alto in basso i suoi concittadini, ritenendoli troppo rozzi e ignoranti. Il detto di David Karnowski è: “sii un ebreo a casa tua e un uomo quando ne esci”; trova quindi deprecabile l’ostentazione della cultura ebraica dei suoi compatrioti.
Passano gli anni e David e Lea concepiscono finalmente un figlio, Georg. Bambino vivace e curioso, Georg sarà fonte di amarezza per il severo padre; adolescente ribelle e poco propenso allo studio (cosa inaudita per un erudito amante del sapere come David), Georg e il padre si allontanano sempre di più, fino al punto di estrema rottura, il matrimonio di Georg con Teresa, una gentile (non ebrea).
Georg
Georg Karnowski non è interessato alla Torah e alla cultura ebraica; pur non rinnegando le sue origini, Georg non si preoccupa della sua identità religiosa e vive serenamente la sua vita come un qualsiasi altro tedesco.
Dopo un’adolescenza passata tra donne e bagordi, Georg decide di studiare medicina. Nonostante all’inizio sia disgustato e insicuro a contatto con il bisturi, l’esperienza sul campo della Grande Guerra gli fornirà le giuste competenze per essere ammesso nella più prestigiosa clinica di Berlino. Qui, oltre a costruire la sua fama, conosce la timida infermiera Teresa, donna che sposa e con la quale fa un figlio, Jegor.
Le cose vanno bene fino a quando l’avvento dei nazisti non stravolge l’esistenza della famiglia di Georg e quella di altre milioni di famiglie ebree. A Georg Karnowski non resta altro che espatriare.
Jegor
Georg Joachim Karnowski, anche detto Jegor, è un bambino particolare: gracile e introverso, preferisce passare il suo tempo assieme allo zio Hugo, fratello di Teresa, piuttosto che a giocare con gli altri bambini. Ex soldato, adesso disoccupato, Hugo Holbek e i suoi racconti sanguinosi sulla Prima guerra mondiale saranno la causa dei tremendi incubi notturni del piccolo Jegor.
La dualità delle sue origini culturali (padre ebreo, madre cristiana) fa sì che il piccolo cresca in un contesto disomogeneo, bidimensionale; da una parte c’è nonna Karnowski che fa ripetere al bambino frasi in yiddish, dall’altra nonna Holbek che porta Jegor in chiesa, entrambe di nascosto dai genitori. Jegor cresce così senza una vera identità culturale, cosa che si rivela assai pericolosa quando i nazisti prendono il potere; a scuola, Jegor viene improvvisamente messo da parte, evitato, trattato in modo diverso, diventa un paria. Ormai adolescente, non capisce perché dopo una vita passata tranquillamente insieme agli altri coetanei adesso venga così bistrattato, fino al giorno in cui viene definitivamente umiliato.
Traumatizzato da questo evento, Jegor entra definitivamente in crisi: ai normali disagi dell’adolescenza si uniscono i maltrattamenti subiti dagli ariani. Una grave scissione intacca la vita di Jegor; metà tedesco, metà ebreo, l’identità del ragazzo subisce una frattura: se tutti i ragazzi, i professori, il preside, lo deridono in quanto ebreo, significherà che hanno ragione sul suo conto e su quello della sua razza. Gli ebrei sono inferiori, degli essere grotteschi e tremendamente brutti coi loro nasoni e i capelli neri, niente a che vedere con la purezza dei volti ariani e i loro capelli d’oro. Jegor comincia a vedersi con gli occhi degli ariani: brutto, ridicolo, un essere deprecabile. Jegor si odia, ma ancora di più odia il padre, sul quale riversa tutta la sua rabbia, causa delle sue radici ebree. Chiuso nel suo mutismo e relegatosi in camera, Jegor comincia a manifestare un’ossessione morbosa: disegnare in maniera compulsiva grottesche caricature ebree, come figurano sui giornali ariani che non smette di leggere.
Georg, preoccupato per lo stato psichico del figlio, capisce che è arrivato il momento di andarsene.
La nuova vita in America non migliora le cose. Sebbene David Karnowski, che riappacificatosi col figlio e partito con lui, ritrova finalmente la pace e la gioia di essere un ebreo sia in casa che in strada, la stessa cosa non si può dire per il nipote.
Ormai contaminato dal germe nazista, Jegor non sopporta di vedere la sua gente finalmente felice nel nuovo paese; New York è chiassosa, sporca, un miscuglio di razze e culture, niente a che vedere con la sua elegante, rispettosa e dignitosa Berlino. Jegor è insicuro in mezzo ai suoi coetanei: paranoico, sospettoso che tutti ridano di lui, invidioso della loro spensieratezza, Jegor si cala in un guscio di alterigia, maleducazione e masochismo che pian piano allontana tutti, anche chi voleva tendergli una mano.
Incapace di adattarsi alla nuova città libera dai pregiudizi, Jegor scappa di casa. Sotto il nome di Georg Joachim Holbek compirà un lungo e tribolato percorso verso la sua finale guarigione.
Gli yeke
Una cosa che non sapevo e che mai mi sarei aspettata potesse esistere è lo snobbismo ebraico; non immaginavo che anche tra gli ebrei esistesse una sorta di gerarchia sociale, e questo non perché consideri gli ebrei diversi dagli altri esseri umani, ma semplicemente perché essendo sempre stati perseguitati nel corso della Storia, pensavo che tutto ciò li avesse resi più uniti nella loro fede e nella loro comunità. Evidentemente non è così.
Da una parte ci sono gli yeke, gli ebrei tedeschi, che si considerano superiori agli altri, gli ebrei dell’est.
Gli yeke sono veri e propri snob, altezzosi e indisponenti verso i loro correligionari stranieri; sebbene siano ferventi credenti ed esperti conoscitori della Torah, gli yeke non amano mostrare al mondo la propria fede ebraica (per lo più per borghesismo).
Gli altri ebrei, quelli provenienti dall’est, sono invece aperti, festosi, non si vergognano di manifestare il proprio credo; persone più umili e semplici, sono però in realtà anche loro degli snob (verso gli ebrei russi, per esempio).
Così, un “sorriso” ironico ha veleggiato sul mio viso quando i primi cortei antisemiti hanno cominciato a sfilare per le strade di Berlino e tutti hanno sottovalutato la cosa, credendo di essere salvi: gli yeke non corrono alcun rischio perché sono tedeschi da generazioni, David Karnowski non ha niente da temere perché, sebbene polacco, con il suo tedesco impeccabile e il suo posto tra la cerchia degli yeke, può considerarsi a ben ragione uno di loro; gli ebrei polacchi non si preoccupano, d’altronde se c’è qualcuno che corre qualche pericolo sono gli ebrei russi, ma anche tra loro, quelli con il permesso di soggiorno sono ben più al sicuro di quelli che ne sono sprovvisti, e così via.
Ho usato la parola poco felice, ‘sorriso’, non certo perché approvi gli inquietanti canti nazisti che attraversavano la città, ma per la stupida boria con la quale gli ebrei hanno preso sottogamba la situazione; ma poi, se anche agli yeke, e a chi come loro credeva di essere in salvo, non fosse successo niente, mi chiedo con quale coraggio sarebbero rimasti impassibili di fronte alle persecuzioni degli “altri” ebrei. Pensavo che finalmente, vista la situazione tragica, gli ebrei delle varie sottocredenze e nazioni si sarebbero finalmente riuniti, e invece no.
Lo stesso David dovrà ricredersi sulle sue amicizie yeke; al momento del bisogno tutti lo trattano per quello che è: un ebreo polacco.
Ha un che di amaro constatare che se si riavvicinano è solo al momento dell’evidenza e dell’estremo bisogno l’uno dell’altro. Ma d’altronde, ebreo o non ebreo, l’essere umano è sempre l’essere umano, con le sue stupide discriminazioni e cattiverie.
Un male morale
Quando si pensa al nazismo, di solito pensiamo alle ripercussioni fisiche che questo ha prodotto sullo sterminio degli ebrei, o al lavaggio del cervello a cui a sottoposto i tedeschi; ciò che non si prende nemmeno in considerazione è l’effetto psicologico che questo ha avuto sugli ebrei stessi. Intendo dire che non avevo mai pensato alla possibilità che quello stesso lavaggio del cervello a cui hanno sottoposto gli ariani potesse intaccare anche la mente degli ebrei.
L’esperienza di Jegor, così tremenda ed umiliante, e la sua identità subitaneamente crollata sono state, per me, qualcosa di illuminante e straziante al tempo stesso. Illuminante perché mi ha permesso di arricchire tematiche inerenti il nazismo e i suoi effetti, sulle quali non mi ero mai soffermata a pensare; straziante perché è davvero straziante assistere a una giovane vita distrutta e tormentata, per cosa poi? Per niente. Per degli stupidi ideali razzisti e senza senso. A un certo punto della lettura ho anche dovuto smettere di leggere tanto mi faceva male.
Si è sempre detto, ma non so quanto la gente se ne renda conto sul serio: il nazismo non è stato solo un male fisico, ma anche e soprattutto un male morale.
Conclusioni
Ve lo ripeto: questo libro è un gioiello. Un’epopea famigliare ricca, intensa e piena di verità; un romanzo di arricchimento personale e culturale che ti invita, per forza di cause maggiori, alla riflessione su quegli aspetti umani che bene o male fanno parte di noi. Scritto nei primi anni ’40, questo romanzo è di un’attualità disarmante; è un libro universale nella sua unicità.
Sono quasi 500 pagine ma vi assicuro che si leggono benissimo e senza fatica; la prosa e lo stile narrativo fluido ed elegante fanno sì che la storia non risulti mai noiosa o prolissa. Un equilibrio di stile magistrale. Ve lo consiglio, non caldamente, di più! Datemi retta, è uno di quei pochi libri intelligenti di cui non vi pentirete assolutamente.
Voto: ★★★★★