lunedì 31 marzo 2014

La famiglia Karnowski #Lunedì narrativa

La famiglia Karnowski è un gioiello della letteratura riscoperto solamente da poco dall’editoria italiana; pubblicato per la prima volta nel 1943 e scritto da Israel Joshua Singer, fratello del ben più famoso premio Nobel Isaac Bashevis Singer, questo romanzo epocale merita di essere annoverato tra i capolavori del primo Novecento. Attraverso gli eventi della prima metà del XX secolo, seguiamo lo svolgersi della vita dei Karnowski, attraverso tre generazioni: David, Georg e Jegor, contornati a loro volta da tanti altri personaggi indimenticabili, come l’allegro Solomon Burak, il saggio Efraim Walder ed il meraviglioso Fritz Landau.



David
David Karnowski è il degno erede del nome che porta; famiglia mediamente benestante e dalla spiccata intelligenza, i Karnowski vantano nella loro genia una caratteristica dominante: la testardaggine. Così, quando David litiga con i membri della sinagoga di Melnitz, decide di lasciare il piccolo paesino della Polonia _rappresentante dell’oscurantismo ebraico, secondo David_ e partire alla volta di Berlino, la città dei lumi.
A niente valgono le suppliche dei suoceri e della moglie Lea, David Karnowski ha deciso: sarà la Germania berlinese la sua nuova patria.
Arrivato a Berlino, David non tarda a stringere amicizia con i più rispettati membri della città; compiaciuto del suo tedesco irreprensibile e della sua ampollosa cultura, David Karnowski guarda dall’alto in basso i suoi concittadini, ritenendoli troppo rozzi e ignoranti. Il detto di David Karnowski è: “sii un ebreo a casa tua e un uomo quando ne esci”; trova quindi deprecabile l’ostentazione della cultura ebraica dei suoi compatrioti.


Passano gli anni e David e Lea concepiscono finalmente un figlio, Georg. Bambino vivace e curioso, Georg sarà fonte di amarezza per il severo padre; adolescente ribelle e poco propenso allo studio (cosa inaudita per un erudito amante del sapere come David), Georg e il padre si allontanano sempre di più, fino al punto di estrema rottura, il matrimonio di Georg con Teresa, una gentile (non ebrea).

Georg
Georg Karnowski non è interessato alla Torah e alla cultura ebraica; pur non rinnegando le sue origini, Georg non si preoccupa della sua identità religiosa e vive serenamente la sua vita come un qualsiasi altro tedesco.
Dopo un’adolescenza passata tra donne e bagordi, Georg decide di studiare medicina. Nonostante all’inizio sia disgustato e insicuro a contatto con il bisturi, l’esperienza sul campo della Grande Guerra gli fornirà le giuste competenze per essere ammesso nella più prestigiosa clinica di Berlino. Qui, oltre a costruire la sua fama, conosce la timida infermiera Teresa, donna che sposa e con la quale fa un figlio, Jegor.
Le cose vanno bene fino a quando l’avvento dei nazisti non stravolge l’esistenza della famiglia di Georg e quella di altre milioni di famiglie ebree. A Georg Karnowski non resta altro che espatriare.


Jegor
Georg Joachim Karnowski, anche detto Jegor, è un bambino particolare: gracile e introverso, preferisce passare il suo tempo assieme allo zio Hugo, fratello di Teresa, piuttosto che a giocare con gli altri bambini. Ex soldato, adesso disoccupato, Hugo Holbek e i suoi racconti sanguinosi sulla Prima guerra mondiale saranno la causa dei tremendi incubi notturni del piccolo Jegor.

La dualità delle sue origini culturali (padre ebreo, madre cristiana) fa sì che il piccolo cresca in un contesto disomogeneo, bidimensionale; da una parte c’è nonna Karnowski che fa ripetere al bambino frasi in yiddish, dall’altra nonna Holbek che porta Jegor in chiesa, entrambe di nascosto dai genitori. Jegor cresce così senza una vera identità culturale, cosa che si rivela assai pericolosa quando i nazisti prendono il potere; a scuola, Jegor viene improvvisamente messo da parte, evitato, trattato in modo diverso, diventa un paria. Ormai adolescente, non capisce perché dopo una vita passata tranquillamente insieme agli altri coetanei adesso venga così bistrattato, fino al giorno in cui viene definitivamente umiliato.
Traumatizzato da questo evento, Jegor entra definitivamente in crisi: ai normali disagi dell’adolescenza si uniscono i maltrattamenti subiti dagli ariani. Una grave scissione intacca la vita di Jegor; metà tedesco, metà ebreo, l’identità del ragazzo subisce una frattura: se tutti i ragazzi, i professori, il preside, lo deridono in quanto ebreo, significherà che hanno ragione sul suo conto e su quello della sua razza. Gli ebrei sono inferiori, degli essere grotteschi e tremendamente brutti coi loro nasoni e i capelli neri, niente a che vedere con la purezza dei volti ariani e i loro capelli d’oro. Jegor comincia a vedersi con gli occhi degli ariani: brutto, ridicolo, un essere deprecabile. Jegor si odia, ma ancora di più odia il padre, sul quale riversa tutta la sua rabbia, causa delle sue radici ebree. Chiuso nel suo mutismo e relegatosi in camera, Jegor comincia a manifestare un’ossessione morbosa: disegnare in maniera compulsiva grottesche caricature ebree, come figurano sui giornali ariani che non smette di leggere.
Georg, preoccupato per lo stato psichico del figlio, capisce che è arrivato il momento di andarsene.


La nuova vita in America non migliora le cose. Sebbene David Karnowski, che riappacificatosi col figlio e partito con lui, ritrova finalmente la pace e la gioia di essere un ebreo sia in casa che in strada, la stessa cosa non si può dire per il nipote.
Ormai contaminato dal germe nazista, Jegor non sopporta di vedere la sua gente finalmente felice nel nuovo paese; New York è chiassosa, sporca, un miscuglio di razze e culture, niente a che vedere con la sua elegante, rispettosa e dignitosa Berlino. Jegor è insicuro in mezzo ai suoi coetanei: paranoico, sospettoso che tutti ridano di lui, invidioso della loro spensieratezza, Jegor si cala in un guscio di alterigia, maleducazione e masochismo che pian piano allontana tutti, anche chi voleva tendergli una mano.
Incapace di adattarsi alla nuova città libera dai pregiudizi, Jegor scappa di casa. Sotto il nome di Georg Joachim Holbek compirà un lungo e tribolato percorso verso la sua finale guarigione.


Gli yeke
Una cosa che non sapevo e che mai mi sarei aspettata potesse esistere è lo snobbismo ebraico; non immaginavo che anche tra gli ebrei esistesse una sorta di gerarchia sociale, e questo non perché consideri gli ebrei diversi dagli altri esseri umani, ma semplicemente perché essendo sempre stati perseguitati nel corso della Storia, pensavo che tutto ciò li avesse resi più uniti nella loro fede e nella loro comunità. Evidentemente non è così.
Da una parte ci sono gli yeke, gli ebrei tedeschi, che si considerano superiori agli altri, gli ebrei dell’est.
Gli yeke sono veri e propri snob, altezzosi e indisponenti verso i loro correligionari stranieri; sebbene siano ferventi credenti ed esperti conoscitori della Torah, gli yeke non amano mostrare al mondo la propria fede ebraica (per lo più per borghesismo).
Gli altri ebrei, quelli provenienti dall’est, sono invece aperti, festosi, non si vergognano di manifestare il proprio credo; persone più umili e semplici, sono però in realtà anche loro degli snob (verso gli ebrei russi, per esempio).
Così, un “sorriso” ironico ha veleggiato sul mio viso quando i primi cortei antisemiti hanno cominciato a sfilare per le strade di Berlino e tutti hanno sottovalutato la cosa, credendo di essere salvi: gli yeke non corrono alcun rischio perché sono tedeschi da generazioni, David Karnowski non ha niente da temere perché, sebbene polacco, con il suo tedesco impeccabile e il suo posto tra la cerchia degli yeke, può considerarsi a ben ragione uno di loro; gli ebrei polacchi non si preoccupano, d’altronde se c’è qualcuno che corre qualche pericolo sono gli ebrei russi, ma anche tra loro, quelli con il permesso di soggiorno sono ben più al sicuro di quelli che ne sono sprovvisti, e così via.
Ho usato la parola poco felice, ‘sorriso’, non certo perché approvi gli inquietanti canti nazisti che attraversavano la città, ma per la stupida boria con la quale gli ebrei hanno preso sottogamba la situazione; ma poi, se anche agli yeke, e a chi come loro credeva di essere in salvo, non fosse successo niente, mi chiedo con quale coraggio sarebbero rimasti impassibili di fronte alle persecuzioni degli “altri” ebrei. Pensavo che finalmente, vista la situazione tragica, gli ebrei delle varie sottocredenze e nazioni si sarebbero finalmente riuniti, e invece no.
Lo stesso David dovrà ricredersi sulle sue amicizie yeke; al momento del bisogno tutti lo trattano per quello che è: un ebreo polacco.
Ha un che di amaro constatare che se si riavvicinano è solo al momento dell’evidenza e dell’estremo bisogno l’uno dell’altro. Ma d’altronde, ebreo o non ebreo, l’essere umano è sempre l’essere umano, con le sue stupide discriminazioni e cattiverie.


Un male morale
Quando si pensa al nazismo, di solito pensiamo alle ripercussioni fisiche che questo ha prodotto sullo sterminio degli ebrei, o al lavaggio del cervello a cui a sottoposto i tedeschi; ciò che non si prende nemmeno in considerazione è l’effetto psicologico che questo ha avuto sugli ebrei stessi. Intendo dire che non avevo mai pensato alla possibilità che quello stesso lavaggio del cervello a cui hanno sottoposto gli ariani potesse intaccare anche la mente degli ebrei.
L’esperienza di Jegor, così tremenda ed umiliante, e la sua identità subitaneamente crollata sono state, per me, qualcosa di illuminante e straziante al tempo stesso. Illuminante perché mi ha permesso di arricchire tematiche inerenti il nazismo e i suoi effetti, sulle quali non mi ero mai soffermata a pensare; straziante perché è davvero straziante assistere a una giovane vita distrutta e tormentata, per cosa poi? Per niente. Per degli stupidi ideali razzisti e senza senso. A un certo punto della lettura ho anche dovuto smettere di leggere tanto mi faceva male.
Si è sempre detto, ma non so quanto la gente se ne renda conto sul serio: il nazismo non è stato solo un male fisico, ma anche e soprattutto un male morale.


Conclusioni
Ve lo ripeto: questo libro è un gioiello. Un’epopea famigliare ricca, intensa e piena di verità; un romanzo di arricchimento personale e culturale che ti invita, per forza di cause maggiori, alla riflessione su quegli aspetti umani che bene o male fanno parte di noi. Scritto nei primi anni ’40, questo romanzo è di un’attualità disarmante; è un libro universale nella sua unicità.
Sono quasi 500 pagine ma vi assicuro che si leggono benissimo e senza fatica; la prosa e lo stile narrativo fluido ed elegante fanno sì che la storia non risulti mai noiosa o prolissa. Un equilibrio di stile magistrale. Ve lo consiglio, non caldamente, di più! Datemi retta, è uno di quei pochi libri intelligenti di cui non vi pentirete assolutamente. 


Voto: ★★★★★

mercoledì 26 marzo 2014

I pilastri della Terra #La storia del mercoledì

Il trionfo spropositato di certi libri io non riesco a capirlo. Per esempio, I pilastri della Terra di Ken Follett, annoverato tra i successi editoriali degli ultimi anni, è stato per me di uno sbigottimento fuori dal comune.
Leggendo i vari commenti in rete, vedendo le critiche positive e il successo ricevuto, ho pensato bene di cimentarmi anch’io nella lettura delle 1030 pagine che compongono questo libro. Risultato? Delusione totale, oltre a un risentito sconcerto.




Beautiful ai tempi dell’Anarchia
L’epoca storica in cui si svolge la trama è il XII secolo, gli anni della guerra civile (o Anarchia) inglese che vede contrapposti i cugini Stefano di Blois (o d’Inghilterra) e Matilde (o Maud), e l’assassinio di Thomas Becket, arcivescovo di Canterbury.
Su questo sfondo colorito di sangue assistiamo al dipanarsi della vita di Tom il costruttore e famiglia, la “strega/selvaggia” Ellen e suo figlio Jack Jackson, l’ex nobildonna Aliena di Shiring e il frate/priore Philip da una parte, quella dei cosiddetti buoni; il “figlio di Satana” William Hamleigh e il vescovo “cornacchia” Waleran Bigod dall’altra, i cattivi irrecuperabili.
Tom ha un unico chiodo fisso nella testa, ovvero costruire una sua cattedrale, chiodo che si conficcherà a sua volta nella testa del futuro figliastro Jack, il quale si innamora della bella, quanto spocchiosa, Aliena, che però mostra un’iniziale resistenza al suo amore in quanto violentata in gioventù dal suo ex promesso sposo, lo stupratore incallito William, il quale a sua volta ha un terrore micidiale dell’inferno e del priore Philip, che non manca di ricordargli le conseguenze delle sue azioni nell’aldilà, le quali vengono poi “perdonate” tramite confessione dal meschino Waleran, ambizioso vescovo di Kingsbridge.
In questa trama alla Beautiful ( e io ve ne ho fatto un succo dimagrante, non crediate sia tutto qui!), che tra l’altro l’autore avrebbe potuto ridurre di almeno 500 pagine tanto sono inutili, ogni tanto si trovano certe scemenze e assurdità che ti farebbero venir voglia di prendere il libro e scaraventarlo dalla finestra, col rischio di ammazzare qualche povero passante innocente.
Uno degli esempi che più mi ha lasciata basita, sconcertata e interdetta è quello di quando Tom e i suoi figli sono mezzi morti dalla fame, svenuti nella foresta: arriva Ellen che li vede emaciati e stramazzati al suolo, e lei che fa? Si preoccupa che stiano bene? Accorre per aiutarli? Semplicemente li ignora? No! Si piomba su Tom e ci fa sesso! Cioè, così, di punto in bianco e per di più con uno che non ha manco la forza di reggersi in piedi!…Ora, io mi domando e dico, MA PERCHÉ?! Dove sta il senso, oltre alla verosimiglianza, di una cosa del genere?! No, questa veramente va oltre l’umano comprendonio delle mie facoltà intellettive, mentre le altre illogicità le ho direttamente rimosse dal mio cervello.


I cattivi e gli stolti
Se sul piano della Storia si assiste alla disputa tra i due cugini reali, su quello della storia del libro si partecipa comunque ad una sorta di guerra, di scontro, di lotta continua tra il bene e il male; tutta la banda dei buoni viene continuamente attaccata da William e la sua cricca di criminali incalliti. Perché? Semplicemente perché William Hamleigh è l’incarnazione del male e della stupidità sulla Terra; cattivo fino all’inverosimile, è prepotente, uno psicopatico, un sadico sessuale che passa metà della sua giornata a stuprare donne e l’altra metà a uccidere poveracci. Alcune scene sono di una volgarità esasperante e totalmente inverosimili, giusto per “scioccare” il lettore.
Inviperito a morte dal rifiuto di Aliena di sposarlo, cerca di torturarla in ogni modo possibile; abusare fisicamente di lei non è stato abbastanza, deve distruggerla su tutti i piani, morale ed economico. Deve soffrire peggio di un cane perché ha osato rifiutarlo. No, rendiamoci conto della pazzia di quest’uomo!
Così, praticamente, l’intero romanzo è un continuo susseguirsi di vittorie e sconfitte, prima dei buoni, ora dei cattivi, e viceversa.
Se per quanto riguarda il lato malvagio troviamo il suo massimo esponente in William Hamleigh e nel vescovo Waleran Bigod (perché è un bel figlio di buona donna pure lui), sul lato del bene troviamo i principali abitanti del villaggio di Kingsbridge: Tom, Philip, Jack, Aliena e bla bla.
Ma se William, ripeto, incarna alla perfezione il diretto discendente del diavolo, non si può certo dire che i buoni siano poi così buoni. E meno male, perché sennò si cadrebbe davvero sul ridicolo; buoni e cattivi come nelle fiabe, anche se comunque la caratterizzazione dei personaggi si rivela ugualmente improntata sullo stile fiabesco: eroi e antagonisti, fine. Niente di più banale e superficiale.
Ma il vero problema, in realtà, è che sono tutti odiosi, chi per un motivo e chi per un altro: Tom e Jack che sono ossessionati da ‘sta cavolo di cattedrale da costruire, Aliena che non fa altro che tirarsela manco ce l’avesse d’oro, ed Ellen che fa sempre la ribelle nonostante l’età. Il priore Philip, sebbene sia il più giustificabile per la sua smania di rendere il villaggio di Kingsbridge ricco e prospero, è comunque pesante e noioso.


Il genere e lo stile
Innanzi tutto, partiamo dalla classificazione del genere in cui viene inserito I pilastri della Terra: storico-mistery.
Romanzo storico? Mistery? Ma per favore!
Intanto, ciò che rende un romanzo storico non dovrebbe essere la presenza di qualche data e di qualche personaggio realmente esistito qua e là _ o non solo quello almeno _, ma bensì la capacità di immergere il lettore nella Storia e di far rivivere certe atmosfere e quotidianità ormai perdute (personalmente ritengo che in questo, tra i libri letti fin’ora, l’unica in grado di suscitare tutto ciò sia Philippa Gregory).
Io qui non ho percepito niente di tutto questo.
Poi, per quanto riguarda il mistery, qui dovrebbe essere tale solo perché nel proemio si parla di un’impiccagione e per il resto delle mille pagine si riaccenna al morto sconosciuto, sì e no, 3 volte?! Un mistero è qualcosa di celato, sì, ma anche di svelato, a poco a poco, in un crescendo lineare e più o meno continuo; qui ci si dimentica addirittura di tale “mistero” (che, per la cronaca, si riesce a risolvere da soli già a metà libro, se non prima, senza bisogno di arrivare alla spiegazione delle ultime pagine)!


Per ciò che concerne le capacità narrative, apparte le descrizioni inerenti l’architettura, che sono dettagliate e pignole fino all’esasperazione (e quindi alquanto superflue e odiose per un comune lettore ignorante in materia come me), il resto delle ambientazioni, delle azioni dei personaggi, eccetera, risultano piuttosto sempliciotte ma confusionarie, rendendo difficile al lettore (o per lo meno a me) capire esattamente cosa, come e dove stia succedendo una determinata cosa; mentre lo stile narrativo ( e qui la colpa può essere semplicemente del traduttore) è prosaico e, oserei dire, quasi puerile, sebbene ciò renda molto scorrevole (perché semplice) la lettura.

Insomma, Ken Follett ne avessi azzeccata UNA!

Conclusioni
Romanzo d’avventura e d’amore (sorrido), storico (rido), mistery ( piango, non si sa bene se dalle risa o dalla disperazione), questo libro ha messo a dura prova il mio amore incondizionato per i libri, belli o brutti che siano, tentandomi, pagina dopo pagina, di gettarlo nella pattumiera, inzupparlo ben bene di benzina e dargli impietosamente fuoco.
E poi su internet leggi parole quali: “capolavoro”, “stupendo”…vabbè. Resta il fatto che ho sprecato un mese a leggere spazzatura. 


Voto:

lunedì 10 marzo 2014

Lo scherzo #Lunedì narrativa

Nel 1965, un più giovane Milan Kundera finì di scrivere il suo primo romanzo, Lo scherzo. Un titolo semplice quanto immediato, adatto a racchiudere in sé tutta la sintesi di questo libro.
Romanzo dal sapore agrodolce, che si sviluppa dalle trame di uno scherzo riuscito decisamente male, è un esordio di impensabile bravura, spirito ed ironia.
Una semplice bravata che cambia la vita di un uomo per sempre e un contorno di personaggi che vi ruotano attorno. Questo è Kundera.




Lo scherzo che tanto ridere non fa     
Nella Cecoslovacchia del secondo dopoguerra, in un clima di rigido “ottimismo” e di “ovino” conformismo, lo studente universitario, Ludvìk Jahn, invia per scherzo, a una ragazza da cui è attratto, una cartolina denigrante i valori dell’epoca. Sfortunatamente per lui, la cartolina finisce nelle mani del comitato universitario del partito comunista. Così, il disgraziato burlone si ritrova col venire espulso dal partito comunista e dall’università; nessuno prende parola per difenderlo durante l’assemblea del partito che deve decidere del suo avvenire. Nessuno, neanche i suoi amici.
Il futuro di Ludvìk viene così distrutto da una banale facezia.
Costretto a prestare servizio militare, Ludvìk passa intere giornate a scavare nelle miniere, cercando di evitare qualsiasi contatto con i suoi camerati. Ludvìk è diverso da loro, è lì per sbaglio, per uno stupido scherzo, e prima lo capiranno meglio sarà. Ma la dura vita ai lavori forzati si prolunga per due anni e l’esistenza diventa vuota e misera finché, durante una libera uscita, Ludvìk incontra Lucie, unico barlume di luce che filtra dalle oscure miniere della sua vita.
Forse è perché entrambi sono anime infelici e solitarie, forse è perché Ludvìk non ha altri contatti femminili se non con Lucie, o forse è perché Lucie va sempre a trovarlo, restando lì pazientemente, fuori dalla recinzione della caserma, fatto sta che pian piano Ludvìk si innamora di Lucie, e lei sembra ricambiarlo. Purtroppo per lui, durante un incontro più intimo del solito, Lucie lo rifiuta perentoriamente a causa di un passato di abusi (ma Ludvìk questo non lo sa).
Ludvìk si sente nuovamente tradito, ferito e con il cuore a pezzi. Un cane bastonato e abbandonato da tutti. La rabbia e il risentimento non possono fare a meno di crescere dentro di lui.


Siamo negli anni ’60 e il clima opprimente dell’URSS si è affievolito; gli anni del partito, dell’università, dell’espulsione e del servizio militare in miniera sono ormai lontani, ma non per Ludvìk.
Un’ironia del caso fa sì che Ludvìk conosca la moglie di Pavel Zemánek, il presidente del partito della facoltà che all’epoca imbastì l’accusa contro Ludvìk, l’uomo che Ludvìk odia con tutto se stesso.
Helena Zemánek entra in contatto con Ludvìk per via di un articolo che deve scrivere sull’istituto presso il quale lavora l’uomo. Ludvìk prova subito odio e disgusto per quella donna_ la cui sola colpa è quella di aver sposato Pavel_ e, per una fugace idea del momento, Ludvìk trova lo spunto per vendicarsi: sedurre Helena e possederla, renderla sua, sottrarre a Pavel la moglie, così come Pavel ha tolto la serenità e il futuro a Ludvìk.
Il piano funziona e, disgraziatamente per lei, Helena si innamora di Ludvìk.
Dopo l’immane sforzo di una disgustosa (per Ludvìk) performance sessuale con Helena, l’uomo si sente finalmente realizzato, esaltato, invaso com’è dall’ebbrezza della rivincita sul suo vecchio nemico, ma, sfortunatamente per Ludvìk, la sua prova sessuale ha ben poco valore perché, come viene a scoprire subito dopo, Pavel ha una relazione con un’altra donna e non gli importa più niente di Helena.
Lo sconforto di Ludvìk, il senso di un’ulteriore sconfitta e la presa di coscienza dell’inutilità di tutta questa vendetta, lo svuotano del tutto.
Inquieto, Ludvìk vaga per i campi e incontra il suo vecchio amico Jaroslav, col quale suonava in un’orchestrina folkloristica. Senza pensarci, chiede di poter suonare con lui e sembra finalmente ritrovare la pace, immergendosi nell’incanto della musica popolare che, un tempo, tanto disprezzava.


Tra il riso e il pianto
 La bravura di Kundera non risiede solamente nelle sue doti narrative, fluenti ed eleganti, ma nel suo raccontare la vita, la vita in tutti i suoi aspetti. Il riso e il pianto. Gli elementi tragicomici qui non mancano. La scena di sesso con Helena è a dir poco esilarante: lei, che è totalmente presa da lui, felice, passionale, finalmente rinata e rianimata; lui, che non la può sopportare, la tocca disgustato e deve trattenersi dallo sputarle in faccia tutta la verità.
Oppure la scena del tentato suicidio di Helena; quando scopre che Ludvìk non l’ama, disperata e con il mondo che le è crollato addosso, prende un flacone di lassativi, credendo che si tratti di aspirine, finendo così col ritrovarsi solo con una scarica di diarrea (scusate l’argomento poco felice).
Vicissitudini inverosimili che, se da un lato ti scatenano pietà, dall’altro non possono non farti sorridere.


A carnevale ogni scherzo vale
Si sa, ogni tanto piace a tutti scherzare. Prendete il carnevale (che tra l’altro è finito da poco), una festa incentrata sul gioco e la burla. Il problema, però, è che con gli scherzi bisogna anche stare attenti.
In un periodo di repressione politica, dove vigono motti inquietanti e rigidi dettami sociali, dove anche solo una parola può erigerti a bersaglio, mi pare azzardato (per non dire stupido) scrivere frasi come: ” L’ottimismo è l’oppio dei popoli! Lo spirito sano puzza di imbecillità! Viva Trockij! Ludvìk “. Voi direte “vabbè dai, è un romanzo”. Sì, questo è un romanzo, come anche Terza liceo 1939  è un libro (di Marcella Olschki), ma che tratta di una vicenda autobiografica. La sfortunata Marcella ha frequentato il liceo durante gli anni bui del regime fascista e, una volta terminato l’anno scolastico in questione, ha pensato bene di inviare una cartolina ben poco felice al suo odiatissimo professore. Risultato? Una querela per oltraggio a pubblico ufficiale con tanto di accusa di amoralità e delinquenza, dalla quale per fortuna la Olschki è uscita pulita.
Quindi, insomma, scherzare piace a tutti, ma è bene ricordare che c’è un tempo per ridere e un tempo per scherzare.


Conclusioni
Lo scherzo è una magistrale prima prova di Milan Kundera. Lo stile narrativo perfetto, mai noioso, che ti tiene incollato per ore; l’ironia che trasuda da ogni pagina e i veri e propri concentrati di filosofia, rendono questo libro una lettura, oltre che piacevole, fuori dal comune. Le banalità della vita qui vengono stravolte, esasperate, in una sadica satira come può essere l’esistenza.
D’altronde Kundera pare voler dire proprio questo: ma, infine, non è la vita stessa uno scherzo? 


Voto: ★★★★★

venerdì 7 marzo 2014

Sconosciuti in treno #I brividi del venerdì

Questo post è pieno di spoiler, soprattutto nell’epilogo, prendete le vostre precauzioni, io ve l’ho detto.
Comunque…




Questo libro è un gran bel libro.
La trama è geniale: due uomini, completamente estranei, che si conoscono per puro caso su un treno, una proposta assurda quanto agghiacciante e…BAM! Basta questo per unire definitivamente i loro destini nel filo nero della morte.


Da una parte c’è Guy, giovane architetto, classico bravo ragazzo, che vedrà strapparsi via la felicità tanto laboriosamente costruita per cadere in un vortice di ansia, persecuzione e soffocamento; dall’altra c’è Bruno, ricco, alcolizzato cronico, morbosamente affascinante sebbene (o proprio perché) squilibrato fin nel midollo.

Sul treno
Guy sta tornano al suo paese natio, nel Texas. Ha una questione importante da risolvere: chiedere il divorzio alla fedifraga moglie Miriam. Guy ha sposato Miriam in gioventù; a quel tempo l’amava molto e avrebbe continuato ad amarla se lei non l’avesse tradito. Guy se ne è andato, ha ricominciato una nuova vita, ha una splendida carriera dinanzi a sé e un nuovo amore, Anne, con la quale vuole risposarsi. Ma Miriam potrebbe fare storie…
Sul treno verso Metcalf tiene un libro in mano ma è assente, guarda fuori dal finestrino, perso nei suoi pensieri. Alzando lo sguardo incontra quello di Bruno, un estraneo, un altro passeggero, come lui. Un urto involontario contro il piede dell’altro. Delle scuse. Dei convenevoli. Delle domande – “dov’è diretto?” -, domande innocenti, ma che man mano diventano sempre più personali.
Quel treno, quell’incontro, quell’uomo, saranno la rovina di Guy.


Bruno
Charles Anthony Bruno è un giovane ricco annoiato. I soldi gli hanno permesso di fare la bella vita, provare ogni cosa, ha già sperimentato e visto tutto e inevitabilmente è sempre alla ricerca di nuove emozioni: la guida da bendato, il furto in un appartamento, qualsiasi cosa, per il semplice gusto di farlo.
Alcolista incallito, Bruno è sempre ubriaco, la sua salute è instabile così come il suo umore; alto e pallido, appare una figura nervosa e nevrotica, la sua gestualità smodata, i suoi tic, i suoi scatti, sono caratteristiche intrinseche e distintive del suo carattere.


Paranoico e spocchioso, Bruno cova un odio profondo verso il padre che non vuole più assecondare la vita sregolata del figlio. Il Capitano, come lo chiama Bruno, vorrebbe che il figlio smettesse di crogiolarsi nell’ozio e andasse a lavorare nell’azienda di famiglia, cosa che Bruno, da bravo erede viziato, non è di certo intenzionato a fare, ragion per cui il padre rifiuta a Bruno la sua rendita.
Il Capitano ce l’ha con Bruno, è contro di lui, gli nega ciò che è suo di diritto,
è ingiusto!
Il padre allora non è più una persona, bensì un intralcio nella vita di Bruno. L’odio viscerale che prova il giovane va al di là della ragione: è un odio puerile ed egoista.


Poi c’è la madre di Bruno, la classica ochetta dell’alta società, una gatta morta che si preoccupa solamente del suo aspetto e di godersi la vita nel lusso e nel divertimento. Il figlio per lei è più come un animaletto da compagnia. Ma per Bruno la madre, così bella, così simpatica, incarna l’ideale della donna perfetta. Sempre insieme a lei, va oltre l’essere un “mammone”, ha un rapporto quasi morboso con la donna.
L’ammirazione, se non venerazione, che prova per la madre da un lato, sfocia nella misoginia dall’altro: non c’è nessuna come sua madre, tutte le altre donne sono solo delle puttane.


Appassionato di romanzi polizieschi, nella sua mente malata e annoiata prende forma l’idea di compiere un omicidio.
Uccidere il padre diventa il chiodo fisso di Bruno, ma sa bene che se il padre morisse, i sospetti ricadrebbero su di lui. Così inizia a pensare in modo maniacale al delitto perfetto; studia nei minimi particolari ciò che deve essere fatto per farla franca, finché non arriva a una soluzione: uno scambio. Trovare una persona, preferibilmente estranea, che come lui desideri sbarazzarsi di qualcuno, compiere ognuno al posto dell’altro il crimine prefissato, e sparire l’uno dalla vita dell’altro. Un piano geniale. Non fosse che Bruno non ha idea di chi interpellare per attuare quell’idea così ben architettata. E’ una questione delicata, e non tutti potrebbero reagire bene a una tale proposta.
Ma ecco che il destino pare accontentare la sua follia.
Su un treno qualunque, Bruno nota quel passeggero davanti a lui, comincia a parlargli e a indagare sulla sua vita. Giovane architetto con la testa a posto, l’esatto contrario di lui. Forse proprio per questa diversità Bruno sente un’affinità con Guy, un desiderio di amicizia e complicità, e decide che deve essere lui l’altra chiave del suo piano.
Guy è giustamente infastidito dalla proposta scandalosa dell’altro, ma Bruno pare non accorgersene, o non importargli, tanto si è fissato di aver finalmente trovato il suo complice. Ormai non ha più importanza cosa dica Guy, Bruno ha già deciso tutto.


Trovata Miriam inizia a seguirla. La donna è con un gruppo di amici al lunapark. Bruno non la perde di vista. Non sa ancora come la ucciderà, ma la cosa non lo preoccupa; coglierà l’ispirazione sul momento. E il momento arriva. Miriam e i suoi amici affittano una barca e raggiungono un isolotto sul lago. E’ completamente buio. Rimasta un po’ indietro Miriam è sola. Ecco, è il momento.
Se in un primo istante Bruno è refrattario all’idea del contatto con la donna, man mano che sente la vita di Miriam scorrere via prova un senso di eccitazione, di esaltazione tale da ben poterlo identificare come uno psicopatico criminale.
La sua parte è stata fatta, adesso tocca a Guy.


Passa il tempo e non succede niente. I due omicidi non devono compiersi in periodi ravvicinati, non devono venire collegati in alcun modo. Ma l’impazienza di Bruno è tangibile, e quando Guy viene a conoscenza dell’assassinio di sua moglie teme, in fondo al suo animo, lo zampino del giovane stralunato. Bruno cerca un contatto, manda lettere, poi telefona, diventa sempre più ardito, petulante, finché non comincia a tampinare e perseguire Guy, ricordandogli il loro patto.
E così Bruno si fa sempre più presente nella vita dell’architetto. Lo assilla, lo supplica, lo minaccia. Si autoinvita in casa sua, fa conoscenza della moglie, diventa un “amico” di famiglia. Bruno è ossessionato da Guy. Lo vuole trascinare a tutti i costi nella sua spirale di follia omicida. E ci riesce.


Guy
Guy Daniel Haines è un giovane e promettente architetto, un uomo qualunque, responsabile e con la testa sulle spalle. La sua vita scorre ormai tranquilla dopo gli anni invischiati in un burrascoso matrimonio, al quale ha finalmente deciso di mettere la parola fine.
L’incontro con Bruno sconvolgerà la sua esistenza. Tutti i suoi progetti per l’avvenire, le sue aspettative e le sue speranze vengono distrutte per colpa di un uomo viziato e sbandato. Dalla semplice antipatia che prova per Bruno, Guy si ritroverà con l’odiarlo aspramente, cercando disperatamente di troncare ogni contatto con lui. Ma la trappola claustrofobica in cui cade non gli lascia via di scampo. Ogni giorno un biglietto, una chiamata, una presenza di troppo, asfissiante, angustiante. Non trova pace nel suo ufficio, non trova riparo in casa sua, non trova neanche più riposo nella sua mente. Un incubo in carne e ossa.
Il suo senso etico ripugna un’idea tanto spaventosa come quella dell’omicidio, ma l’assillo di Bruno è soffocante, troppo pressante. E quell’ansia, l’ansia di essere scoperto in qualche modo collegato all’omicidio della ex moglie; la paura di perdere Anne, la sua vita. E’ troppo.
Esasperato più che mai, sull’orlo della pazzia, Guy cede. Uccide il padre di Bruno e spera finalmente di poter mettere fine a tutta quella storia. Ma no. Ormai il legame che unisce i due è segnato per sempre, indelebile. Guy stesso comincia a sentire il bisogno della presenza di Bruno. Ormai sono una cosa sola, uniti per sempre dal sangue e dalla morte.


Epilogo
Bruno, Guy, Anne e altri amici fanno una gita in barca. Bruno ubriaco fradicio cade dallo yacht. E affoga.
La fine di Bruno è quasi indegna: un colpo di spugna e la figura di Bruno non esiste più. Quel tarlo che ha intaccato la vita di Guy è scomparso nel nulla, per sempre.
Questa morte, così rapida e insignificante, mi sembra un contrasto paragonata al personaggio di Bruno, così onnipresente e dominate nel romanzo.
Guy invece farà una fine più penosa, più scialba e miserabile. Colto nel sacco dall’investigatore del caso, Guy, un uomo innocente che ha avuto la sfortuna di incontrare un pazzoide, finisce per pagare le colpe di entrambi, perché Bruno muore e morendo non sconta alcuna pena.
In fin dei conti, Bruno se l’è cavata ancora una volta.


Conclusioni
Scritto nel 1950, questo romanzo riscosse un ben misero successo, finché Alfred Hitchcock ne trasse il film L’altro uomo (o Delitto per delitto).

Nel suo romanzo d’esordio l’autrice, Patricia Highsmith, è riuscita ad architettare una trama avvincente, due personaggi ben costruiti, scandagliati nella loro psicologia fin dentro il loro animo, descrivendo rapporti di amore/odio, di dipendenza ossessiva che ben rispecchiano quei sentimenti patologici dell’universo umano.

L’unica nota negativa per me resta il finale: il romanzo si tronca, stop. Chiuso il sipario, i tendoni calati. Sì, ok, può dare un certo tono, è un finale ad effetto se si vuole – d’altronde quando è finita è finita -, ma questi finali scenici mi lasciano sempre un po’ a bocca asciutta. Bruno mi è stato strappato via così, dal nulla, e non resta che un Guy totalmente sconfitto.

Comunque, resta il fatto che questo libro è un gran bel libro.

Voto: ★★★★

“Quando la tradiva, non avrebbe voluto ucciderla?”
“No. Non possiamo smetterla con questo argomento?”

sabato 1 marzo 2014

Nel Paese dei Ciechi #Il sabato spaziale

Conoscete il mito della caverna di Platone? Riassunto in soldoni, racconta di uomini che, imprigionati fin dall’infanzia dentro una caverna, sono stati legati e costretti a fissare solo il muro dinanzi a loro. Dietro ad essi, su di una strada in salita, arde un fuoco; tra il fuoco e la caverna c’è un muricciolo. Se dietro questo muricciolo passassero degli uomini con degli oggetti o degli animali, il fuoco proietterebbe le loro ombre sul muro dinanzi ai prigionieri, e se questi uomini, esterni alla caverna, parlassero, i prigionieri penserebbero che siano le ombre stesse a parlare.
Se un giorno un prigioniero fosse liberato, egli avrebbe un’iniziale difficoltà nel rendersi conto della realtà, e prima di poter guardare il sole senza rimanerne accecato, a causa della prolungata permanenza nell’oscurità, potrebbe solo vedere il riflesso degli oggetti nell’acqua. Man mano che i suoi occhi si abituano alla luce, questo schiavo liberato sarà allora capace di vedere la verità per quella che è. Il suo impulso sarà, quindi, quello di tornare a liberare i suoi compagni di schiavitù, ma essi non gli crederanno, talmente sono compromessi dalle loro credenze, e anzi potrebbero anche tentare di aggredirlo. Perché le credenze sono difficili da demolire ed è molto più semplice restare nel rassicurante mondo delle ombre.


La morale del mito consiste nello spiegare quanto sia arduo il percorso verso la verità e il vero sapere, e che il compito del filosofo (colui che è illuminato) è quello di portare la luce del bene e della sapienza agli altri uomini, pur sapendo che si tratta di un’impresa difficile.
Ebbene, leggendo Nel Paese dei Ciechi di Herbert George Wells, non ho potuto fare a meno di ripensare a questo mito; lo sfortunato protagonista che si ritrova ad essere l’unico “illuminato” senza però avere alcuna chance di persuadere il suo pubblico di orbi nel dargli retta.
Ma procediamo con ordine.


Nel paese dei ciechi…
Per sfuggire ai colonizzatori spagnoli, alcuni indigeni si sono rifugiati in una valle sperduta tra le Ande. Col passare degli anni, le nuove generazioni di questo ristretto clan, venivano colpite da una strana malattia che li rendeva sempre più ciechi. Pensando più ad una punizione divina che ad uno strano morbo contratto lì, un abitante decide di andare nel mondo giù in basso per cercare un antidoto o un talismano contro questa piaga.
Per sua sfortuna, al suo ritorno verso la valle scopre che una valanga ha reso inaccessibile la strada del ritorno ed è costretto a restare al di là della valle.


Passano i secoli, e nella remota valle andina, con il susseguirsi delle generazioni, la popolazione è diventata irrimediabilmente cieca, tant’è che i bambini nascono direttamente con i bulbi oculari vuoti. La normalità nella valle è la cecità e il mondo esterno non esiste.
Nuñez, uno scalatore, disgraziatamente cade dalla parete rocciosa che stava scalando, ma finisce, per lo più illeso, su un ammasso di neve che attutisce la caduta.
Appena si riprende, Nuñez parte in esplorazione e approda in una valle; tutto ciò che vede ha qualcosa di strano; ciò che attira maggiormente la sua attenzione sono delle casette schierate che non presentano finestre e sono sgraziatamente intonacate con diversi colori, oltre ad una serie stradine e viottoli regolari che collegano le varie case alla via centrale.
Qua e là vede alcune persone distese sul prato e uomini che stancamente riempiono delle giare con dell’acqua. Nuñez si avvicina ma, notando che nessuno sembra accorgersi di lui, comincia a gesticolare. Ancora niente. Allora urla.
Dopo un iniziale sconcerto, gli abitanti attorniano lo straniero e lo portano presso i saggi della valle.
Nuñez tenta invano di spiegare loro che viene dal mondo di fuori e che riesce a vedere, ma gli abitanti, ormai immemori di cosa sia la vista e di tutto ciò che con essa ha a che fare, credono che sia stato appena generato dalle rocce della valle; così spiegano a Nuñez la loro cosmogonia, la religione e che il tempo è stato diviso in caldo e freddo (giorno e notte) e che era bene dormire durante il caldo e lavorare durante il freddo (chiedono a Nuñez se sa dormire, lol).


Se inizialmente Nuñez pensa di poter soggiogare gli abitanti della valle essendo lui dotato della vista, si ritrova invece a fare i conti con una mentalità completamente estranea a concetti quali “cecità”, “vista”, “colore”, “luce e ombra” e simili. Tenta in ogni modo di spiegare cosa sia la vista, ma nessuno gli crede e cominciano a trattarlo come un demente.
« Io vedo » disse.
« Vedo? » disse Correa.
« Sì, io vedo » disse Nuñez volgendosi a lui, e inciampò nel secchio di Pedro.
« I suoi sensi sono ancora imperfetti » disse il terzo cieco. « Inciampa e dice parole senza senso. Conducilo per mano ».
Esasperato dalla cieca ottusità del suo nuovo entourage, Nuñez tenta la fuga, ma dopo essere rimasto al freddo e senza cibo per due giorni, decide di tornare nella valle e sottostare alle regole del Paese dei Ciechi.

Nuñez non parla più della bellezza del paesaggio, della vastità del cielo e del nitore delle stelle, se non a Medina-saroté, la figlia del suo nuovo padrone Yacob, l’unica che resta ad ascoltarlo incantata.
Tra i due nasce l’amore e Nuñez sente finalmente di poter essere felice anche in mezzo al buio, una fiammella di speranza nell’oscurità, ma quando il padre della ragazza viene a sapere che i due hanno intenzione di sposarsi finisce l’incanto. Medina-saroté non può sposarsi con un essere inferiore che va farneticando di stelle e tramonti, a meno che la sua demenza non venga curata mediante l’asportazione chirurgica dei globi oculari che, sicuramente, sono la causa delle sue fantasie. Anche Medina-saroté pensa che sia meglio l’operazione per porre a freno la fantasia dell’amato e sciogliere così ogni vincolo al loro matrimonio.
Cosa farà Nuñez?


…il monocolo è il re
Beati monoculi in terra caecorum è un proverbio latino medievale che, tradotto letteralmente, significa: beato il monocolo nella terra dei ciechi. Questa espressione si usa per dire che anche un mediocre sembra un genio se posto a confronto con chi è peggio di lui.
Appena giunto nel Paese dei Ciechi, Nuñez non fa che ripetere questo detto come un mantra; tralasciando l’odiosa prepotenza dell’essere umano nel voler sempre ergersi a dominatore nei confronti di chi crede più debole, Nuñez constaterà presto, e ben amaramente, l’erroneità della sua presunzione.
L’errore di Nuñez, infatti, è quello di magnificare a priori la sua facoltà visiva e contemporaneamente sminuire l’antropologia culturale che caratterizza il contesto sociale nel quale viene a trovarsi; perché, se nel mondo di Nuñez nella terra dei ciechi il monocolo è il re, nel Paese dei Ciechi il monocolo è il disagiato. Un mondo diverso ha anche regole diverse.
E cosa vuol dire tutto ciò? Vuol dire che niente è assoluto.


Tema cardine del racconto è infatti il relativismo, e nella fattispecie il relativismo culturale. Il problema dell’essere umano è che spesso presume che la sua realtà sia l’unica possibile; è inconcepibile per lui, se non ammettere, anche solo approvare una concezione culturale ed esistenziale diversa dalla sua. Ciò avviene sia per Nuñez (beati monoculi in terra caecorum) che per i ciechi. Quando Nuñez tenta di spiegare loro che viene da una città denominata Bogotà, i ciechi, totalmente incapaci di figurarsi un mondo esterno al loro, pensano che Bogotà sia il nome di Nuñez.
Quando Nuñez cerca di spiegargli cosa sia la vista è, sì, comprensibile che loro continuino a non capire, ma è altresì innegabile che essi non si sforzino nemmeno di comprendere e anzi, a causa del loro caparbio dogmatismo e della loro fisiognomica distorta, giudichino Nuñez inferiore, se non addirittura mentalmente ritardato.

« Ho esaminato Bogotà, » disse « e il caso mi è più chiaro. Penso che molto probabilmente si potrebbe guarirlo ».
« È quello che ho sempre sperato » disse il vecchio Yacob.
« Il suo cervello è turbato » disse il dottore cieco.
Gli anziani fecero un mormorio di assenso.
« Ora, che cosa lo turba? ».
« Ah! » disse il vecchio Yacob.
« Questo » disse il dottore, rispondendo alla propria domanda. « Le strane cose che hanno il nome di occhi, e che esistono per formare una soffice e gradevole depressione nel volto, sono nel caso di Bogotà malate a tal punto da danneggiare il cervello. Sono assai gonfie, e le palpebre, munite di ciglia, si muovono. Di conseguenza il suo cervello è in uno stato di continua irritazione e logoramento ».
« Sì? » disse il vecchio Yacob. « Sì? ».
« E io penso di poter dire con ragionevole certezza che per guarirlo completamente altro non occorre se non una semplice e facile operazione chirurgica: asportare, cioè, questi corpi irritanti ».
« E poi sarà assennato? ».
« Perfettamente, e un cittadino esemplare ».
« Sia ringraziato il Cielo per la scienza! » disse il vecchio Yacob, e subito corse ad annunciare a Nuñez le sue liete speranze.
A noi un dialogo del genere può far sorridere, se non inquietare (se si pensa ad una pazzia come l’asportazione degli occhi), ma ciò che si deve considerare è il punto di vista degli interlocutori: per loro è normale non vedere, per loro la valle è il mondo, per loro ciò che è stato tramandato di generazione in generazione è l’unica verità ammissibile, sebbene si tratti di credenze elaborate dalla psiche umana che necessariamente, in assenza di dati scientifici, è costretta a interpretare come può (fantasiosamente, il più delle volte) la realtà che l’attornia.
Così, se come affermava Carl Gustav Jung: “le forze eruttate dalla psiche collettiva portano confusione e cecità mentale”, la cecità, nel Paese dei Ciechi, non è solo fisiologica ma anche mentale.


Un altro elemento interessante nel racconto di Wells è la simmetria che si viene a creare tra l’abitante che resta confinato nel mondo “al di qua” della valle, e Nuñez, che invece si ritrova catapultato nel Paese dei Ciechi.
Una simmetria che rispecchia il dualismo, l’altra faccia della stessa medaglia: due mondi speculari che coesistono sebbene diametralmente opposti. Il punto di vista, il relativismo, appunto.
Termini, poi, come “al di qua” e “al di là”, non fanno altro che  marcare ulteriormente questo confine prospettico tra i due mondi capovolti.


L’amore è cieco
Una delle doti che apprezzo maggiormente nel genere umano è la capacità di adattamento; Nuñez che si ritrova “enucleato” nel Paese dei Ciechi, nonostante le iniziali difficoltà, capisce che l’unico modo per sopravvivere è quello di adeguarsi alla vita della comunità cieca, e così fa, ma sarebbe tuttavia scorretto affermare che Nuñez effettivamente si integri nella nuova congrega.
Non potendo condividere i suoi pensieri su ciò che vede e pensa realmente è normale allora che Nuñez cominci a provare un certo interesse per l’unica persona che gli dia ascolto, Medina-saroté.
Come un’unica scintilla che rischiara le tenebre della sua nuova esistenza, Nuñez ritrova in Medina-saroté quel calore confortante che solo il contatto umano può generare. E così, sboccia l’amore.
Ma si tratta di amore vero o è solo un desiderio dettato dal senso di solitudine e di estraneità che Nuñez inesorabilmente prova nella sua nuova condizione di unico vedente?
É possibile che questo amore sia un’illusione, una speranza per ricominciare a vivere serenamente in un mondo che non è il suo?
Penso che sia probabile, anche perché se Nuñez comincia a nutrire affetto per Medina-saroté è principalmente perché lei, oltre ad avere le palpebre meno infossate (e quindi ricordandogli maggiormente un suo simile), è l’unica che gli dà ascolto, sebbene interpretando la sua verità per una sua fantasia.
Si tratta allora di una fantasia nella fantasia, così come vi è un mondo nel mondo.
É quindi inevitabile la delusione di Nuñez nello scoprire che Medina-saroté non ha mai creduto alla sua storia e preferisce che si operi e ponga così fine alle sue fantasticherie.
In un primo momento, Medina-saroté può sembrare un’egoista, ma se ci immedesimiamo nei suoi panni e torniamo a pensare al suo punto di vista è chiaro che lei, poverina, non capisce e non può capire, ma anzi spera e crede nell’operazione di Nuñez solo per buona fede.
Forse il detto “mogli e buoi dei paesi tuoi” è un tantino estremista, ma penso sia indubbio che eviti incomprensioni culturali non indifferenti (poi se uno va oltre l’incomprensione e vede la cosa come una possibilità di arricchimento personale è un altro discorso).


Conclusioni
Questo breve racconto di H.G.Wells, consigliatomi dalla mia professoressa di lettere ai tempi del liceo, è riemerso dopo anni e anni dalla mia interminabile wish list, e, che dire, sono stata consigliata bene.
Questo piccolo libriccino di appena quaranta pagine è un invito ad aprire gli occhi e la mente; è un invito a non fermarsi dinanzi ai limiti della propria percezione delle cose, ma ad indagare, ad andare oltre le apparenze, e a tenere in conto la possibilità che il nostro punto di vista non sia l’unico e assoluto.
Il mondo è grande, ed è bello perché è vario; non limitiamoci a giudicare senza conoscere, perché niente è certo e tutto è relativo.
La cecità può colpire chiunque, ma evitare di chiudere gli occhi può aiutare a prevenirla. 


Voto: ★★★★