lunedì 27 gennaio 2014

America oggi #Lunedì narrativa

 
America oggi è un’antologia di dieci racconti scritti da Raymond Carver, che hanno ispirato la sceneggiatura per il film omonimo di Robert Altman (Short cuts).

Sui dieci racconti che fanno parte della raccolta, solo due emergono vittoriosi dalla nube d’inconcludenza generale che permea gli altri, uno più insignificante dell’altro, in cui non c’è finale, non c’è proprio trama, non c’è niente.

Un conto è il minimalismo, un altro è l’inconcludenza.
Lo stile pressoché minimalista (anche se Carver non ha mai voluto essere etichettato) non preclude al piacere della lettura di questi racconti; ciò che invece è esasperante è la totale assenza di significato.
Un conto è cogliere un significato sottinteso, non esplicitato, un altro è inventarsi di sana pianta un significato che questi racconti a parer mio non hanno affatto. Ma non è nemmeno questo il punto.
Se le aspettative del lettore non fossero alimentate da fasulle recensioni, allora mi andrebbe anche bene. Si prenderebbe la raccolta per quello che è: semplici scorci senza capo né coda e stop. Ma siccome nella critica si parla di piccoli drammi, ecco che allora non va più bene. Quali sarebbero questi drammi? Ripeto, devo inventarmeli io? Devo forzare una chiave di lettura interpretativa in cerca di un significato che in realtà è totalmente assente? Il dramma nel primo racconto, Vicini, sarebbe che lui è un travestito latente? Che la coppia resta chiusa fuori dalla porta? O forse è l’invidia che i due provano per i vicini? E nel secondo racconto Loro non sono tuo marito, il dramma starebbe nel desiderio del marito di vedere la moglie desiderabile agli occhi altrui? O è forse la figura del marito stesso un dramma? Perché un uomo che impone alla moglie una dieta ferrea per sentirsi appagato dal giudizio estetico della società effettivamente è un dramma. Un dramma di essere umano! Sì, forse è proprio questo il dramma, ma quand’anche fosse così, si tratta di una speculazione forzata.
Nei racconti di Carver non ci sono svolte, non c’è pathos.
Al che, qualcuno può contestare dicendo che Carver vuole semplicemente raffigurare la quotidianità. Quotidianità? A me pare di cogliere una quotidianità piuttosto inverosimile nella maggior parte dei racconti (pensate alla scenetta con quel gorilla di Nelson in Vitamine). Vi pare sul serio una scena verosimile? A me per niente.

Non parliamo poi dei personaggi. La psicologia è inesistente. Sì, si colgono delle briciole qua e là con cui comporre una mollica di pane, ma in definitiva rimangono dei personaggi miseri, alquanto freddi, amorali.

America oggi? E che America allora!

I fondamenti sociali dell’America:
fatti i fatti tuoi e bevi che ti passa
L’America di Carver è un’America alquanto squallida che si riassume principalmente in due parole: indifferenza e alcolismo.
Alla maggior parte dei protagonisti non importa niente di quello che accade loro intorno, purché non accada a loro, ma in alcuni casi il disinteresse è tale che essi non si curano neanche delle loro stesse vite. Tanti piccoli étrangers, oserei dire, intrappolati o adagiatisi (a seconda dei casi) nel grigiore delle loro esistenze. Il problema è che nessuno si sforza più di tanto per cambiare – La vita è questa. – e qui sta il vero dramma.


Il sidro dell’America è l’alcol, che si tratti di birra o si tratti di whisky poco importa.
Mi ha dato un sincero fastidio leggere di tizi perennemente alticci, se non ubriachi, con il bicchiere o la bottiglia sempre in mano. Dio mio, ubriaconi, scuotetevi dai vostri fumi alcolici! Non si tratta di ragazzini dementi in cerca di eccitazione, ma si parla di trentenni, dei così detti adulti! Ma effettivamente di adulti in questa raccolta se ne trovano ben pochi. Non si può essere considerati adulti a priori solo perché si ha un lavoro, una casa e una famiglia. Infatti la maggior parte dei personaggi si rivela essere una banda di perenni adolescenti, immaturi ed egoisti. Questo è il popolo di Carver.


Qualcuno che si salva c’è
Come ho scritto in precedenza, non tutti i racconti si perdono nel niente. Due in particolare sono molto ben riusciti e degni di nota: Con tanta di quell’acqua a due passi da casa e Una cosa piccola ma buona. Questi sono gli unici due racconti che riescono a trasmettere qualcosa di concreto e profondo.
Limonata in un certo senso si accomuna a Una cosa piccola ma buona (che è veramente bello per quanto triste), ma è troppo breve _ più che un racconto vero e proprio è una sorta di poesia sui generis_ per poter far presa sul serio, ma forse c’è qualcuno che l’apprezzerà di più proprio per la sua incisività.


Con tanta di quell’acqua a due passi da casa
Finalmente un dramma vero, tangibile, inequivocabile: quello dell’indifferenza, appunto, che in questo racconto è palpabile all’ennesima potenza.
Quattro uomini decidono di andare a pesca lungo il fiume, per qualche giorno, su in montagna. Al loro arrivo scoprono riverso nell’acqua il cadavere di una giovane donna, nuda. Ma hanno camminato per diverse miglia prima di arrivare lì e lei ormai è morta. Che fretta c’è? Così, con mio grande disgusto, i quattro amici trascorrono, come da programma, le loro giornate in montagna come se niente fosse: bevono whisky, dormono, bevono whisky, pescano, lavano le stoviglie lì nel fiume, a pochi metri dalla ragazza, bevono whisky, giocano a carte, si raccontano storielle sporche, dormono, bevono whisky, pescano, bevono whisky. Ah già, si sono anche assicurati che la corrente non trascinasse via il corpo della giovane, legandole il polso alle radici di un albero (che premurosi!).
Decidono di tornare a casa un giorno prima del previsto e, a una stazione di servizio, chiamano finalmente lo sceriffo.
Claire Kane, la moglie di Stuart, uno della combriccola, non appena viene a conoscenza dell’accaduto entra in crisi. Com’è possibile che degli uomini restino completamente impassibili di fronte al cadavere di un altro essere umano?
Stuart non capisce nemmeno quale sia il problema. Era morta.
Questa spaventosa ottusità e la totale noncuranza con la quale è rimasto in montagna con gli amici, allontanano Claire sempre di più. Tutti vanno avanti, a nessuno importa niente di quella povera ragazza. Ma per Claire è il punto di rottura. Non riesce a darsi pace per il comportamento del marito. La donna comincia a interrogarsi sul significato della sua vita, sul suo passato, sull’esistenza stessa. Tutto andrà avanti come se niente fosse.
Ma no, non è più possibile oramai.
Stuart, che continua a non capire niente, tenta di riavvicinare la moglie con dei “ti amo” a caso, privi di significato, passando poi ai bruschi “vai all’inferno” ogni qualvolta la moglie rifiuta i suoi importuni approcci sessuali. Stuart è un uomo incapace di empatia e sensibilità; sempre attaccato alla sua lattina di birra o al suo bicchiere di whisky, riesce solo a pensare al sesso. Stuart non è un uomo, è una bestia.
Claire invece è un essere umano. E’ una donna, è una madre, è una persona. Diventa quindi un dovere morale per lei, non appena si scopre l’identità del cadavere, assistere ai funerali della ragazza. Quella ragazza, che suo marito ha pensato bene di lasciare a mollo ancora un po’ (tanto era già morta!), era a sua volta una persona, con una famiglia e degli amici che le volevano bene.


Questo racconto è amaro. Siamo esseri umani legati dall’indifferenza per il prossimo. Siamo soli, cinici, abbandonati a noi stessi. Ma per fortuna c’è ancora qualcuno che, come Claire, si rifiuta di dimenticare il valore e la dignità che ogni individuo merita.

 « Non è giusto: quella lì era già morta, no? […] E che cavolo, io non ci vedo niente di male! […] Quella era morta, morta, morta, hai capito? » […]
 « Ma è proprio questo il punto », dico io. « Era morta. Non capisci? Aveva bisogno di aiuto » .
***
 « Cristo santo, Stuart, era solo una bambina! » 
 Conclusioni
Decisamente, questo scrittore non fa per me. Ho avuto aspettative troppo alte per poi restare solamente delusa.
Sarà un mio limite, ma la mia ottusità mentale fa sì che io debba trovare una qualche trama, un evento, un significato, insomma qualcosa in una storia per poterla apprezzare.
Comunque un aspetto positivo che ho ammirato con piacere c’è. Lo stile narrativo di Carver: semplice, essenziale, scorrevole. Si legge bene insomma. In alcuni racconti poi, la prosa assume addirittura un che di poetico, pur trattando di quotidiane banalità.
Insomma l’arte del raccontare c’è, solo che non mi ritrovo d’accordo sul ‘cosa’ raccontare.
De gustibus.


Voto:

venerdì 17 gennaio 2014

La lunga marcia #I brividi del venerdì

Avreste mai pensato di poter scrivere un intero romanzo su una lunga camminata? 
Beh, Stephen King sì.
E che romanzo! Uno dei migliori di King; la trama è a dir poco geniale: una lunga marcia mortale, che vede spezzarsi, una dopo l’altra, giovani vite come carne al macello. Vita e morte sono divise da un confine sottilissimo nel quale la follia fa spesso capolino. Impensabile una cosa del genere, eppure ti ritrovi anche tu a camminare senza tregua, spompato fino all’anima, assieme agli altri Marciatori.
Il finale poi è qualcosa di micidiale, ti lascia l’amaro in bocca ma allo stesso tempo non puoi fare a meno di sentire i brividi per l’eccitazione nel constatare che il Re ha colpito ancora, unico e inimitabile nel suo geniale sadismo.


Che cos’è la lunga marcia?
In un tempo indefinito, in una società americana quanto mai distopica, ha luogo ogni anno una marcia nazionale.
La lunga marcia è una “competizione” che parte dal confine tra lo stato del Canada e quello degli Stati Uniti, fino a quanto più riescono ad arrivare i marciatori. Come sarebbe, direte? Sarebbe che cento ragazzi, iscrittisi volontariamente, si sfideranno in una lunga marcia mortale finché di loro non resterà che uno solo, il vincitore. Non c’è un traguardo stabilito, non c’è un limite di tempo. L’unica cosa che conta è camminare, camminare fino allo sfiancamento, fino alla pazzia, fino alla morte. Non sono permesse soste, non sono accettate scuse. L’unica possibilità di farcela consiste nella resa degli altri partecipanti. Una gara crudele, disumana, ai limiti dell’incredibile.
I marciatori sono tutti giovani ragazzi che si ritrovano uniti in un unico destino; all’inizio regna la spavalderia, la competizione, l’antagonismo (d’altronde, mors tua vita mea), ma poi l’unione forzata della marcia, le comuni sofferenze, le paure e le speranze fanno sì che nascano delle amicizie profonde, così che alla perdita di un compagno, il dolore per la morte dell’amico e la gioia per la sconfitta del rivale collidono in una contraddizione psico-morale non indifferente.
I militari, che dai loro convogli seguono i ragazzi durante il percorso, sono pronti a fucilare chiunque venga richiamato per tre volte. Non c’è grazia per nessuno, perché queste sono le regole della lunga marcia.


Le regole della marcia
Le regole della marcia sono semplici quanto ferree:
  • Non ci si può fermare MAI, né per malori, né per dormire, né per espellere i propri bisogni.
  • La velocità minima che si può percorrere è di 6 km l’ora. Se si scende sotto la soglia dei 6 km/h si riceve un’ammonizione, per un massimo di tre. L’ammonizione dura un’ora e in quest’ora non si deve scendere di nuovo sotto il limite di velocità imposto dalla marcia, pena la seconda ammonizione che allungherà il tempo di recupero a due ore. In pratica: 1 ammonizione = 1 ora, 2 ammonizioni = 2 ore, 3 ammonizioni = 3 ore. Dopo la terza ammonizione vi è l’eliminazione dalla marcia.
  • Non ci si può ritirare dalla marcia, salvo eliminazione.
  • Si ha diritto ad una sola razione di cibo al giorno; saranno per i cui i marciatori a dover dosare le proprie razioni giornaliere. L’acqua invece può essere richiesta in qualsiasi momento (almeno quella!).
Chi sono i marciatori?
Ray Garraty, sedicenne, è uno dei principali protagonisti del romanzo. Non sa nemmeno lui perché decide di partecipare alla marcia. A casa ha una madre e una ragazza che l’aspettano, il padre (unico vero personaggio sano di mente di tutto il romanzo), che deplorava la marcia ed era contrario alla politica del governo in atto, è stato portato via dagli squadroni. Nonostante tutto questo Garraty vuole partecipare alla gara.

Peter Mc Vries, diventa il migliore amico di Garraty, al quale salverà più volte la vita, nonostante le promesse di non aiutarsi reciprocamente durante la gara.
Ha un passato piuttosto balordo, come testimonia la sua cicatrice.


Stebbins, figlio illegittimo e segreto del Maggiore, partecipa alla marcia per sfida, un atto di ribellione contro il padre. Garraty prova fin dall’inizio un’antipatia istintiva verso Stebbins senza sapere esattamente perché.
Ragazzo taciturno e solitario, sembra dotato di una tempra formidabile, non appare mai stanco o turbato, se non verso la fine.


Gary Barkovitch è lo stronzetto di turno, perché ci dev’essere sempre uno stronzetto di mezzo. Ragazzo meschino, non riesce a fare amicizia con nessuno. Viene chiamato “assassino” dagli altri ragazzi per via della vessazione psicologica con la quale causa la morte di un altro partecipante.
Il suo crollo psichico segnerà la sua dipartita dalla gara.


La lunga marcia: ma perché?
Fin dall’inizio della storia non ho potuto fare a meno di chiedermi: ma perché? Nessuno lo sa. Nemmeno i marciatori stessi; sì, qualcuno afferma che partecipa per i soldi, qualcun altro per scriverne un libro, ma la risposta dei molti ai quali viene chiesto il perché di una simile follia è semplicemente: “non lo so”.
Quale essere sano di mente si iscriverebbe per partecipare ad una marcia impossibile e addirittura mortale? Nemmeno la gloria e tutti i soldi del mondo valgono la propria vita, e allora perché?
L’unica risposta che sono riuscita a darmi è l’incoscienza. L’incoscienza dell’adolescenza pura e semplice; quell’impulso sconsiderato nel dover dimostrare qualcosa, l’ebbrezza di spingersi oltre il limite, e in questo caso oltre il limite più assoluto: oltre la vita stessa.
Man mano, però, che la marcia prosegue e i Marciatori vedono davanti ai loro occhi i loro compagni morire, la leggerezza di questa decisione pesa sempre di più, finché i ragazzi prendono coscienza della loro situazione e la goliardia lascia il campo alla paura. Quella vera: la paura della morte. Una paura atavica, innata e puramente istintiva, che diventa concreta, reale, possibile in qualsiasi istante.
L’istinto di sopravvivenza li spinge fino allo stremo finché qualcuno semplicemente si arrende, qualcun altro semplicemente impazzisce, stremato dallo stress psico-fisico che un’impresa del genere può provocare.
Nessuno può salvarsi. La lunga marcia è la morte.


Il circo del Maggiore
La figura del Maggiore è oscura, se non inverosimile. Imponente, la pelle abbronzata e gli occhi perennemente nascosti dietro occhiali da sole con la lente riflettente, non si sa praticamente niente di lui, tranne che è un donnaiolo e il Capo della gara. Il Maggiore non sembra avere una coscienza: è un carnefice insensibile, un automa ligio al proprio dovere di intrattenere il suo pubblico, il suo circo; come nell’antica Roma, per gli spettatori del Colosseo, assistere alla morte altrui non era nient’altro che uno spettacolo, così è per il pubblico della marcia. La folla è eccitata dalla vista del sangue, ogni morte è un tripudio di grida di sadica gioia. In questa società, a dir poco distopica, vi è un’insensibilità all’omicidio talmente crudele che è quasi al di fuori dell’umano. Bestie che godono di altre bestie al mattatoio, perché, in definitiva, tutto è uno show.
Ovviamente, in un simile ambito sociale, anche i marciatori restano piuttosto indifferenti di fronte all’esecuzione di qualche concorrente, a loro sconosciuto. Addirittura, il Maggiore viene inizialmente ammirato dai giovani gareggianti; visto come una figura potente, carismatica e prestigiosa di una lunga tradizione quale è la marcia, per poi essere inevitabilmente odiato in funzione di ciò che egli rappresenta: la morte.


ATTENZIONE: Zona altamente spoiler, saltare fino alle Conclusioni.
Traguardo
Su cento ne restano tre. I tre. Garraty, Mc Vries e Stebbins. Dopo cinque giorni di marcia sono loro i finalisti sul podio, ma solo uno può essere il vincitore, solo uno può continuare a vivere. A questo punto della storia vorresti che accadesse un qualche miracolo_ ti prego, fa che sia concessa la grazia agli altri due_ tanto ti sei affezionato loro. Ma tutto ciò non è possibile.
Perciò, la medaglia di bronzo va, signore e signori, a Peter Mc Vries! (uaaaaah!)
La medaglia d’argento va invece al “coniglio” Stebbins! (uaaaaah!)
Vince la medaglia d’oro il giovane Ray Garraty! Il boato delle urla della folla è incontrollabile, impazzito. Il maggiore scende dalla sua jeep per congratularsi con il vincitore.
Ehi, ma perché non si ferma? Ehi, la marcia è finita! Hai vinto!
Ma Garraty non sente più niente. C’è qualcuno che lo chiama all’orizzonte, ma chi è? La morte? La follia? Si resta col dubbio, ma Garraty continua comunque a camminare. A camminare. E poi, comincia a correre.
Addio.


Conclusioni
Pubblicato nel 1979, sotto lo pseudonimo di Richard Bachman, La lunga marcia rientra tra i primi lavori di King e nonostante questo tutta la bravura del futuro re del brivido è già qui. L’abilità narrativa di Stephen King è qualcosa di strabiliante; nel suo stile superbo sa alternare con maestria la suspense dei momenti clou alle più lente descrizioni paesaggistiche del Maine, sua ambientazione abituale, durante il cammino. Il modo in cui riesce a dosare il passaggio da una condizione emotivamente normale ad un esaurimento fisico e psichico è magistrale: leggevo e mi sentivo stanca anch’io, quasi quasi mi facevano male i piedi (no, suvvia).
Riguardo poi ad un eventuale significato del libro, si potrebbe pensare ad una critica sociale: che l’autore volesse ispirare una riflessione sull’insano bisogno, vero e proprio sadico piacere, che spinge l’essere umano alla ricerca della violenza a dispetto delle sofferenze altrui? Sì, forse. Oppure, più probabilmente, non vi è nessuno scopo in un romanzo del genere: semplicemente, King è fuori di testa!
Comunque, in conclusione, leggetelo se amate lo splatter, leggetelo se amate King.
Insomma, leggetelo. 


Voto: ★★★★★

sabato 11 gennaio 2014

Tempo fuor di sesto #Il sabato spaziale

Tempo fuor di sesto, oltre ad essere una frase dell’Amleto di Shakespeare, è il titolo del romanzo di Philip K. Dick scritto nel 1958-59. Scrittore postmodernista, Dick è autore di numerosi romanzi di fantascienza dai quali sono stati tratti vari film tra cui, per esempio, il fantastico The Truman show che è stato ispirato proprio da questo libro.

Il tempo, non per niente, è fuor di sesto
In un’anonima cittadina americana degli anni ’50, Ragle Gumm, campione nazionale del concorso “Dove si troverà l’omino verde?”, vive, assieme alla sorella Margo, il cognato Vic e il nipote Sammy, un’esistenza alquanto monotona e tranquilla. Ogni mattina, non appena arriva il giornale, Ragle si cimenta ferventemente nella risoluzione del quiz indetto dalla Gazette da ormai tre anni. Le sue soluzioni, rivelatesi sempre giuste, gli garantiscono un cospicuo reddito con cui vivere. Così, mentre gli altri uomini lasciano le proprie case per recarsi a lavoro, Ragle passa le sue giornate a lavorare in casa armato di grafici, tabelle e schemi, perché per lui è di un vero e proprio lavoro che si tratta. Per via di questa vita placidamente statica Ragle si sente insoddisfatto, turbato. Non solo sente che la sua vita non ha sbocchi, ma è anche preda di strane allucinazioni. Che stia diventando pazzo? Ma Ragle non è il solo a cui capitano certe stranezze: anche suo cognato Vic comincia ad avere inspiegabili visioni. Il ritrovamento di strani biglietti, elenchi telefonici con numeri inesistenti, riviste con dive mai viste in copertina, assieme alle allucinazioni, mettono in allarme tutti nella casa Gumm-Nielson. Qualcosa non va, ma cosa? La realtà diventa dubbio.
Il piccolo Sammy, poi, costruisce una radio a galena e riesce a captare anomale comunicazioni militari.
Pezzo dopo pezzo, Ragle si convince sempre di più che la sua paranoia non sia così infondata. Qualcuno lo sta spiando e usando, ma perché?
Così Ragle tenta la fuga. Il primo rocambolesco tentativo di varcare il confine della città si dimostra più arduo del previsto ma alla fine Ragle riesce a scoprire la verità. Una terribile, quanto incredibile, macchinazione è stata ordita contro di lui proiettandolo in un altro mondo, in un’altra epoca che non esiste più. Ma Ragle viene presto ritrovato e drogato dai sui sorveglianti. Viene riportato nella città fittizia da cui era scappato, senza ricordare nulla. O quasi. I particolari, il pezzo chiave della sua memoria è annebbiato ma ormai Ragle sa che ciò che lo circonda è falso. L’unico modo per scoprire finalmente tutta la verità è uscire di lì, di nuovo. Sapendo di essere monitorato, questa volta Ragle è più cauto e assieme al cognato ruba un camion riuscendo finalmente a “evadere” dalla cittadina. E’ fatta.
Ragle e Vic approdano in una città sconosciuta, apparentemente simile a quella che hanno abbandonato, ma popolata da individui assai strani. I ragazzi si vestono con lunghe tuniche e si acconciano i capelli in giganteschi coni, le ragazze si rasano la testa, non si truccano e indossano abiti maschili ed entrambi parlano un astruso slang. La carta moneta non esiste più, sostituita da dischetti simil plastica, e in atto c’è una guerra: tra Lunari e Terrestri.
Ragle capisce così che “Dove si troverà l’omino verde?” non è semplicemente un gioco, ma un’importante operazione di intercettazione missilistica. Il suo talento nel prevedere il punto in cui la Terra sarà colpita dai missili Lunari è quindi di vitale importanza e decide di tornare a “casa”. Alla ricerca di un telefono per contattare chi di dovere, Ragle e Vic entrano in una farmacia. Dal bancone, però, spunta fuori una vecchia conoscenza di Ragle, la signora Keitelbein, fittizia vicina di casa. La donna, una Lunare, mostra loro delle riviste moderne dove tutta la verità è scritta nero su bianco. Ragle finalmente ricorda tutto: aveva deciso di schierarsi con i Lunari e lasciare la Terra, ma i terrestri non potevano perdere un elemento tanto importante come Ragle. Così hanno riprogrammato la sua mente riportandola agli anni ’50, alla sua infanzia, un’epoca che Ragle ha sempre amato e per la quale provava nostalgia.
Ripreso il pieno possesso della sua memoria, Ragle decide di porre fine alla guerra e lasciare così la Terra.


Questa strana cosa chiamata realtà
Può la realtà essere un’illusione? E se sì, che cosa è reale? Ma cosa vuol dire reale? Ciò che vediamo, sentiamo, percepiamo? Secondo Ragle Gumm no. Il reale va al di là di tutto ciò; il reale è paradossalmente l’ideale, l’intellegibile, la parola intesa come Logos. Le percezioni empiriche non sono veridiche, non manifestano la realtà perché i nostri sensi non sono oggettivi ma soggetti ad alterazioni, sono influenzabili. Possiamo conoscere il fenomeno ma non la cosa in sé (come si può notare, se non si è completamente estranei alla filosofia, i riferimenti a Eraclito, Platone e Kant sono palesi).
Ma allora, se la realtà non è la realtà, chi sono io veramente? L’identità del soggetto si perde se gli assodati contorni contestuali che lo circondano (socio-culturali, ambientali ecc.) si annullano. Un colpo di spugna su tutto ciò che si conosce e si comincia a dubitare di noi stessi, a diffidare sul valore delle nostre verità e sulla stessa concezione di esistenza. Perché, come nel pirandelliano Mattia Pascal l’individuo non esiste se non esiste per la società, allora neanche Ragle esiste – almeno così com’è – in una realtà che non esiste. E se non esisti, perché non sai più chi sei, cosa fai? Vai alla ricerca di risposte. E Ragle lo fa.


Old Town
Il ritorno agli anni ’50 non è casuale. Nel suo iniziale lavoro di intercettazione missilistica anti-Lunare, Ragle Gumm percepisce tutto il peso e lo stress di una responsabilità così alta come quella di evitare centinaia morti. Il destino delle vite terrestri dipende unicamente da Ragle; si può comprendere quindi la difficoltà nel dover sopportare un onere del genere. Inoltre Ragle comprende la fondatezza della causa Lunare e decide di passare dalla loro parte. Per impedire tutto ciò ed evitare a Ragle lo stress del suo compito, i capi terrestri decidono di riprogrammare la mente di Ragle e per meglio favorire il lavaggio del cervello, rispediscono Ragle negli anni della sua infanzia, gli anni ’50. Una città fittizia, Old Town, viene costruita apposta per lui e in questo palcoscenico allestito ad arte vengono inseriti degli attori e dei volontari che si sono sottoposti alla riprogrammazione.
Ma cos’è che di quest’epoca affascina tanto Ragle? La stabilità, direi. Il cliché dell’uomo che va a lavoro e quando torna a casa ha la sicurezza di ritrovare ancora lì la sua famiglia che lo ama e lo circonda, così come accadeva al padre di Ragle. I racconti della seconda guerra mondiale, il tepore del focolare domestico, la serenità del nido familiare, sono in realtà esperienze che appartengono al padre di Ragle, col quale in questa utopia (o distopia, a seconda di come la si voglia interpretare) si reincarna.
Ma Ragle non è suo padre, e se per tre anni interi la sua ansia della realtà ha favorito l’assoggettamento a questa fantasia, Ragle cade nell’insoddisfazione. Non ha una casa tutta sua, non ha una moglie e dei figli, non ha il classico lavoro in un ufficio. Ragle si sente un inetto, un inconcludente, un quarantenne che passa la vita risolvendo lo stupido gioco di un giornale.
Il sogno idealizzato dell’infanzia non si traduce così  nelle aspettative di Ragle, ed è probabile che questo, assieme agli indizi che man mano trova, risvegli in lui echi indefiniti della sua vita reale.


Lo stile
Lo stile narrativo di Philip K. Dick risulta alquanto prosaico, soprattutto nella prima parte del romanzo: le molteplici scene descrittive sono caratterizzate da vere e proprie elencazioni, come una sorta di lista delle azioni dei protagonisti. Risulta quindi una parte un po’ lenta, statica, in cui ci si immerge flemmaticamente nella classica e banale vita medio-borghese dell’epoca. A far sì che l’attenzione del lettore non si sopisca entrano però in gioco gli strani avvenimenti che accadono ai protagonisti e le varie stranezze e incongruenze che se da un lato mettono in confusione chi legge, dall’altro accrescono inevitabilmente la curiosità del lettore (io ho finito il libro in due giorni non riuscendo a smettere di leggere).
Man mano che la presa di coscienza di Ragle aumenta e si cimenta in un’ardimentosa fuga, si entra nel vivo dell’azione; il ritmo è più attivo, più veloce, emozionante.
L’ultima parte invece è diametralmente opposta alla prima. Lo stile si velocizza fin troppo; il finale è frettoloso e serrato, si perde quasi il senso di continuità con l’altra metà del libro. Una scissione totale: dal mondo degli anni ’50 si viene catapultati a quello del futuro, moderno e… che mondo! Un futuro ridicolo e poco credibile, non solo perché rivelatosi totalmente errato per noi posteri, ma soprattutto perché non concretizzato; ci ritroviamo in un mondo bizzarro e improbabile senza conoscere gli aspetti e le adeguate esplicazioni sulle fondamenta politiche e socio-culturali che lo rendano verosimile. Non viene neanche chiarito fino in fondo il motivo del conflitto tra Lunari e Terrestri, restando così un finale sconclusionato e precipitoso.


Conclusioni
Ma in sostanza mi è piaciuto questo libro? Sì, perché sebbene, per i miei gusti, il finale lasci a desiderare, la curiosità che mi ha spinta a leggerlo per ore è stata talmente forte che penso sia un bel punto a suo vantaggio (non sono molti i libri che mi incollano così). Essendo una neofita della fantascienza credo che come inizio possa andare bene.
Inoltre la copertina del libro è azzeccata in pieno, anche se questa è una considerazione che si può formulare solo a posteriori. Leggete il libro e scoprirete il perché! 


Voto: ★★★★