John Dickson Carr. Digitate questo
nome su Google. Troverete un’innumerevole serie di libri scritti da
questo autore, la cui reperibilità si riduce a ben pochi; uno di questi è
Le tre bare, riconosciuto come uno dei migliori romanzi sull’enigma della camera chiusa.
Primo membro americano del Detection
Club e scrittore prolifico, quasi dimenticato, il nome di Carr
riecheggia forse maggiormente nella mente degli appassionati del genere
come il creatore di Gideon Fell, protagonista di questo sesto romanzo della serie sull’ingegnoso dottore.
Trama In una gelida notte di febbraio, viene commesso un omicidio. Charles Grimaud, illustre professore dell’occulto, viene trovato in fin di vita all’interno del suo studio. La porta è chiusa a chiave dall’interno e sulla neve all’esterno della casa non ci sono impronte. Un bel dilemma per il sovrintendente Hadley ed il suo celebre amico, il dottor Gideon Fell.
La faccenda si presenta fin da subito astrusa e non poco complicata; tre sere prima, infatti, il professor Grimaud aveva ricevuto la visita di uno strano figuro: un uomo inquietante che andava farneticando di bare
e vendette fratricide. Normale, quindi, pensare subito a Pierre Fley,
l’individuo delle minacce, come probabile assassino. Ma il mattino dopo
la morte di Grimaud, si diffonde la notizia di un’altra morte
misteriosa: Fley è stato trovato assassinato in mezzo alla strada, di
nuovo la neve intatta intorno al cadavere e la presenza di tre passanti
che hanno udito lo sparo, ma non hanno visto nessuno.
Il caso si infittisce; scavando nella vita di Charles Grimaud, riemerge
dal passato una fosca vicenda avente a che fare con terre lontane,
crimini, prigioni e tre bare, da una delle quali sembra essere riemerso
un fantomatico fratello Henri, ora in cerca della sua vendetta.
L’impossibile Come afferma fin da subito il narratore:
” bisogna presumere che qualcuno stia dicendo la verità “
Il problema del mistero di questo romanzo, però, è che tutti dicono la verità. No, mi correggo, non tutti; una persona non dice la verità, ma non è l’assassino.
Riesaminando i fatti della serata in cui è morto Grimaud, ci accorgiamo di una tremenda verità:
– Uno sconosciuto mascherato, presumibilmente Fley, entra in casa
Grimaud. Madame Dumont, la governante, si dirige allo studio al secondo
piano per annunciare il visitatore.
– La figlia di Grimaud, Rosette, e l’amico Mangan, si trovano nel
salotto a pianterreno. Lo sconosciuto si rivolge a loro come Pettis,
amico del professore. I due vengono chiusi a chiave nel salotto.
– Mills, il segretario di Grimaud, e madame Dumont controllano la porta
dello studio presso la quale è entrato il visitatore mascherato.
– Drayman, amico di vecchia data di Grimaud, dorme nella sua camera, sotto effetto di sonniferi.
– Burnaby, pittore amico di Grimaud, è a giocare a poker.
– Pettis è a teatro.
Tutti hanno un alibi di ferro, e se in
un gruppo tutti i sospettati sono presumibilmente innocenti, per forza
di cause maggiori ci sarà un elemento x esterno al gruppo che sarà il
colpevole. Quindi, il colpevole sarà certamente Fley. Ma Fley viene
trovato morto. Dunque, senza più x, l’omicida sarà y, il fratello Henri.
Ma il fratello Henri non esiste. Allora chi resta?
Ricordate però che un elemento α del gruppo mente, ma non è l’assassino.
Non arriverete mai alla soluzione se
non considererete l’intera vicenda da una prospettiva del tutto opposta,
e anche allora vi saranno certe questioni di non poco conto da
risolvere, come ad esempio l’assenza di qualsivoglia traccia sulla neve.
I personaggi La caratterizzazione dei personaggi in
generale è ben costruita, sebbene inizialmente si abbia qualche
difficoltà nell’inquadrare ciascun soggetto; Carr è molto pedante nel
descrivere gli atteggiamenti dei singoli personaggi, ledendo perciò alla
naturalezza dei suoi ‘attori’.
Le figure meglio riuscite sono sicuramente quelle del sovrintendete Hadley e del dottor Fell.
Essendo le Tre bare il sesto
romanzo avente per protagonista Gideon Fell, il personaggio del dottore
non viene presentato in alcun modo, tanto che pensavo che l’appellativo
di “dottore” fosse in riferimento ad una sua formazione
medico-scientifica _cosa rivelatasi totalmente errata in quanto Fell non
è molto ferrato in materia_ ; il titolo di dottore viene dalle sue
lauree in lettere e filosofia.
Il metodo investigativo del dottore è sicuramente intuitivo; non è
assolutamente un detective dal metodo scientifico e dell’azione come
invece è Sherlock Holmes (il cui autore è molto apprezzato da Carr, che
ne scrisse, tra l’altro, la biografia), anzi si potrebbe dire che è la
sua nemesi.
La figura del dottor Fell, come affermerà Carr, è ispirata ad un altro noto autore del giallo, Gilbert Keith Chesterton.
Esperto conoscitore del romanzo poliziesco, è proprio ne Le tre bare
che il dottore tiene forse il più famoso discorso sull’enigma della
camera chiusa, in cui elenca ed analizza i sette principali metodi per
compiere un omicidio in una stanza sigillata, facendo anche riferimento
ad altre opere ed autori reali, come Gaston Leroux, Anna Katharine
Green, Edgar Allan Poe, Thomas Burke, Jacques Futrelle, Melville
Davisson Post, Israel Zangwill ed il sopracitato Chesterton.
Inoltre, in questa sua conferenza, Fell rompe la quarta dimensione
rivolgendosi direttamente al lettore, suscitando un’ ironica perplessità
in chi legge.
«Ma» interloquì Pettis «se vuole analizzare situazioni impossibili, perché parlare di romanzi polizieschi? »
«Perché» rispose il dottore, tranquillamente, «ci troviamo in una storia
poliziesca e non dobbiamo ingannare il lettore fingendo che non sia
così. Non dobbiamo inventare scuse elaborate per tirare dentro una
discussione sui racconti polizieschi. Occupiamoci beatamente della più
esaltante missione concessa ai personaggi di un libro. »
Conclusioni Leggendo i vari commenti su Anobii, ho
notato che la maggior parte dei lettori si lamentava della spiegazione
finale, definita troppo prolissa e pedante, ma a me pare evidente che
sia così; come capire altrimenti il macchinoso svolgersi degli eventi?
Non trovo che questo sia il peggior difetto del libro, anzi, una
spiegazione minuziosa è dovuta per chiarire le vicissitudini di un
mistero tanto intricato.
L’unica pecca, semmai, sta nella verosimiglianza di tutto l’ambaradan
messo in scena dal colpevole e della solita, inaccessibile genialità del
detective romanzesco, ma appunto, si tratta di una pecca che si ritrova
in tutti i gialli classici.
Quindi sì, la soluzione è inarrivabile, il delitto troppo mistificato,
il dottor Fell troppo “fantasioso” e arguto; ciò nonostante si tratta di
una trama affascinante, merito soprattutto della suggestiva, quanto
torbida, vicenda delle tre bare, che permea l’intero romanzo di un’aurea
sinistra e accattivante.
Ma
è venuto quel giorno. L’ira si è abbattuta. Il peccato, la colpa e il
castigo? Le psicosi maniacali di quelle entità che definivamo nazioni,
istituzioni, sistemi – i poteri, i regni, le dominazioni – le cose che
si fondono in eterno con l’uomo e che dall’uomo emergono? Il nostro
buio, esteriorizzato e visibile? Comunque si voglia guardare a questi
fatti, è stato raggiunto il punto critico. L’ira si è abbattuta. (…) E
la mano che brandiva quella lama apparteneva a Carleton Lufteufel. Nel
momento in cui affondava la lama nel nostro cuore, quella mano non era
più umana, apparteneva al Deus Irae, al Dio dell’Ira stesso. Quel che
resta sopravvive grazie alla Sua tolleranza. Se deve esistere una
religione, ritengo che questo sia l’unico credo sostenibile.
Carleton Lufteufel, chi è? L’uomo che
ha ucciso miliardi di persone, ponendo fine al mondo così com’era
conosciuto, o la manifestazione terrena del Dio dell’Ira? Carleton
Lufteufel è entrambe le cose, come sostengono i SOW, i Servi dell’Ira
(Servants of Wrath), un gruppo religioso formatosi a seguito degli
eventi che hanno portato alla distruzione del vecchio mondo. Uno dei membri dei Servi dell’Ira è
padre Handy, che ingaggia Tibor McMasters, talentuoso pittore menomato
degli arti, per dipingere un ‘chiesesco’, un affresco, che raffiguri
l’immagine del Deus Irae, Carleton Lufteufel.
Tibor accetta l’incarico, ma per portare a termine la sua opera ha
bisogno di trovare e di vedere con i propri occhi Lufteufel, di cui si è
ormai persa ogni traccia; parte così per un ‘Pelleg’, un pellegrinaggio
alla ricerca dell’uomo che ha distrutto la civiltà e che lo ha ridotto a
doversi servire di protesi estensibili al posto delle braccia, e di un
carretto trainato da una mucca per potersi muovere. Rivali spirituali dei SOW sono i
cristiani, i pochi cristiani sopravvissuti alla Terza Guerra Mondiale,
che non possono vedere di buon occhio l’impresa imboccata da Tibor; il
palesare l’immagine del culto (sebbene per i cristiani non sia possibile
e quindi non veritiera e priva di fondatezza) equivarrebbe ad
accrescere il potere dei SOW, i quali si arricchirebbero di nuovi fedeli
sopraffatti e corroborati nel credo tramite un idolo visibile,
materiale. Così, Pete Sands, novizio della comunità cristiana, decide di
seguire Tibor, sperando di potergli evitare l’incontro con Lufteufel. Il Pelleg intrapreso da Tibor è molto
pericoloso: nessuno che sia partito per un Pelleg ha mai fatto ritorno;
ciò nonostante Tibor è ormai deciso a mantenere il suo impegno.
Dipingerà il Dio dell’Ira.
Durante il suo viaggio, Tibor si ritrova a contatto con un mondo a lui
estraneo; non poche saranno le volte in cui si stupirà dell’abissale
differenza che caratterizza la desolazione dell’ambiente ad appena una
cinquantina di chilometri da Charlotteville, la cittadina in cui vive.
A popolare il suo cammino vi sono poi strane creature, risultato delle
mutazioni dovute al fallout nucleare della guerra: enormi lucertole
antropomorfe, grossi scarafaggi parlanti, vermi famelici dalle
dimensioni titaniche e piccoli esseri irsuti, a metà tra esseri umani e
macropodidi, denominati ‘corridori’. Assieme a questa fauna
geneticamente modificata dalle radiazioni, sopravvivono macchine
computerizzate risalenti all’età prebellica, come il ‘Grande C’ (Grande
Computer), una sorta di sfinge atipica che, mediante estensioni pseudo
robotiche dall’aspetto femmineo, tenta di trascinare gli esseri umani
nel suo baratro mortale, non appena questi gli abbiano rivolto le
domande a cui il Grande C deve saper rispondere. Altra macchina
potenzialmente pericolosa è ‘l’autofab’, una sorta di autofficina
autonoma e psicologicamente instabile, alla quale Tibor è costretto a
chiedere aiuto.
Un mondo popolato da mostri, mutanti,
automi psicotici e assassini, ma pochi esseri umani, per lo più
raggruppati in piccole comunità arrangiate in insediamenti
semidistrutti, post-bellici.
Questo è il mondo futuro alla Terza Guerra Mondiale del duo
Dick-Zelazny; un pianeta desolato, arido e ostile, un mondo popolato da
strane creature, come un futuribile Paese delle Meraviglie, ma meno
fantastico e più grottesco.
Il Deus Irae
Non lo fare più, per favore. Non avevo capito che fossi la cosa che sei.
« Lo rifaccio eccome, cazzo, se ci provi un’altra volta. » Non ci riproverò. Ti offrirò dei ratti da mangiare. Di quelli giovani, grassi. Solo, liberaci dalla Tua ira.
Carleton Lufteufel, il demone dell’aria ( dal tedesco, ‘Luft’ aria e ‘Teufel’ demone ). Il solo nome è evocativo.
Direttore dell’ ERDA ( acronimo inglese che sta per “Ente per lo
sviluppo e la ricerca dell’energia” ) ai tempi dell’avvento del
conflitto, Lufteufel è il diretto responsabile dello sterminio di massa
che ha posto fine alla guerra, il “Creatore”, se così vogliamo
chiamarlo, di un mondo civilmente
primordiale. Carleton Lufteufel è un uomo in carne ed ossa, ma nello
stesso momento in cui ha premuto il tasto dello ‘sputo’ ( l’arma
micidiale che ha corrotto ogni cosa ) si è tramutato nel Dio dell’Ira.
E ai pochi superstiti cosa rimane se non il culto in tale dio? Come
spiegare altrimenti l’abominio del dolore, della distruzione e della
morte che li ha contagiati? La possibilità non può essere che una:
esiste un Dio, e questo Dio è malvagio.
Una teodicea ribaltata, annientata nel fallimento di trovare una
spiegazione razionale alla compresenza del male e di un Dio
caritatevole.
È il Dio dell’Ira che governa questo mondo, e la morte non rappresenta
più un ricongiungimento col divino, ma una liberazione da esso.
Carleton Lufteufel è un uomo in carne ed ossa, ribadiamolo; come tale è soggetto al dolore, al deterioramento fisico e morale:
come un Cristo trasversale, Lufteufel ha la sua corona di spine
conficcata nella testa – resti metallici delle esplosioni -, e la
camicia, impregnata del suo sangue ripulito da Alice – una Maria
Maddalena ritardata? – , come una santa sindone, ritrae il suo volto
impresso nella tela.
A rimarcare l’essenza divina di
Lufteufel vi sono i due passaggi in cui l’entità mistica del Dio
dell’Ira si manifesta in mondo inequivocabile: la comparsa del dio di
fronte a Tibor e la sua ultima apparizione ad Alice.
« Prega! » pretese la faccia. « In ginocchio e con le mani a terra! » « Ma » disse Tibor « io non ho mani e ginocchia! » « Questo lo stabilisco io » disse la facciona accesa. Tibor si sentì
sollevare di colpo, poi sbatté duramente giù sul prato accanto al
carretto. Gambe. Era inginocchiato.
Quando Tibor si ritrova bloccato per
via della perdita di una ruota del suo carretto, un disco, i cui tratti
facciali vanno formandosi lentamente, si palesa essere un’apparizione di
Lufteufel, il quale prima dona gli arti a Tibor, e subito dopo se li
riprende, manifestazione rivelante di potenza e sadismo.
Il suo incontro con Alice è invece
molto più dolce e serafico. Alice è la ragazza mentalmente ritardata che
Lufteufel ha preso con sé. La perdita di Lufteufel equivale per Alice
alla perdita del padre, identificato dalla ragazza come tale.
Alice, essere umano subnormale, sarà l’unica a vedere la verità oltre il
suo deficit; l’unica in grado di assistere alla teofania del Dio
dell’Ira, miracolosamente rappacificato con se stesso e con il mondo.
La pace del Dio dell’Ira sta proprio nella sconfitta. La colpa che
pesava sullo spirito di Lufteufel per le sue azioni, viene estirpata
attraverso la sua morte.
I temi di Dick: la verità oltre la verità. L’intero romanzo è una continua
disputa teologica su quale sia il percorso “giusto” da seguire.
Sostanzialmente, il romanzo ripercorre in chiave mistico-religioso la
questione teoretica della verità, tema assai caro a Dick.
Come si sentirebbe il mondo senza di lui…di questi tempi sono davvero poche le cose cui aggrapparsi.
Preposta l’esigenza di una divinità in
cui credere in un mondo post-apocalittico abbandonato a se stesso – non
veniamo a conoscenza di strutture organico-normative -, il dilemma
principale diventa quindi quale sia la divinità in questione cui
affidarsi. Continuare imperterriti nella speranza di un dio buono e
misericordioso, il Dio cristiano, oppure avallare il rapporto di
causa-effetto, secondo il quale, a seguito di tale catastrofe, l’unico
dio possibile è un dio dell’ira?
Una volta deciso quale via intraprendere, diventa necessario avvalorare tale scelta con delle prove.
L’ossessione per la verità che tormenta lo scrittore, è la stessa
ossessione che spinge Pete Sands all’uso indiscriminato di droghe per
arrivare a raggiungere la gnosi; così come per i SOW, l’unico modo per
conoscere la sostanza e l’essenza del Dio dell’Ira è quello di ritrarlo. La risoluzione finale ha un che di
tragicomico. Morto Lufteufel, Pete convince Tibor che il barbone
avvinazzato trovato in una stalla è il Dio dell’Ira; Tibor, finalmente
giunto al termine del suo Pelleg, è pronto a tornare a casa per
completare il suo chiesesco.
A diciassette anni
dalla morte di Tibor, la gerarchia dei Servi dell’Ira promulgò una
dichiarazione solenne di autenticità. Si trattava incontrovertibilmente
del volto del Dio dell’Ira, Carleton Lufteufel. Non c’erano dubbi. (…)
Questo allo scopo di garantire il rispetto dove mancava, la fede in una
società sempre meno religiosa e il credo in un mondo già consapevole del
fatto che la maggior parte delle cose in cui credeva si erano rivelate
delle menzogne.
In definitiva, Dick afferma ancora una
volta che non è possibile conoscere la verità ultima delle cose, ma ciò
nonostante è necessario continuare verso il suo perseguimento, evitando
di credere ciecamente a ciò che si vede.
Conclusioni Dopo una prima parte traballante, in
cui ho sinceramente pensato che gli autori si fossero fatti di acido, si
arriva ad una comprensione più tangibile dell’idea che sta alla base
del romanzo. Si capisce dove vogliono andare a parare, insomma. Fino
alla seconda metà, in cui inizia la parte veramente intrigante della
storia.
Che dire poi dell’accoppiata a quattro mani Dick-Zelazny? Sarò onesta:
non mi ha convinta del tutto. Lo stile pare disorganizzato (soprattutto
all’inizio, appunto), le descrizioni sono sommarie e i periodi
estremamente brevi, segmentati. Questo, assieme ad un uso spropositato
del tedesco, hanno reso l’opera disarmonica, proprio in virtù
(ribadiamolo) delle differenze tra la prima e la seconda metà del libro.
D’altronde c’è da dire che una dozzina d’anni di collaborazione
discontinua tra i due scrittori deve aver reso la stesura della storia
non poco complicata.
Comunque. Deus Irae è un romanzo particolare, strano, per certi versi assurdo, ma con delle potenzialità innegabili.
Il mio primo incontro con Herman
Melville si è concluso. Non avevo mai letto niente di questo autore ed
ignoravo completamente in cosa mi sarei imbattuta. Per mia fortuna ho
cominciato la scoperta dello scrittore con dei racconti e non con un
intero romanzo. Perché dico così? Beh, perché Melville non è
assolutamente una lettura semplice, almeno per me.
Posso capire perché lo scrittore americano finì nel dimenticatoio
all’epoca delle sue opere: i tempi non erano maturi. Gli scritti di
Melville sono oscuri, astrusi, sibillini; lo stile e le tematiche
precorrono i tempi: Herman Melville è il pioniere dell’ermetismo e della
letteratura dell’assurdo.
È abbastanza chiaro, quindi, come una narrativa del genere non possa
essere stata apprezzata dai contemporanei dell’autore, quando il genere
letterario in vigore era per lo più il romanzo naturalista.
Ciò nonostante, l’opera di Melville è sopravvissuta e giunta sino a noi;
un’opera ostica ed enigmatica, ma permeata di una potenza simbolica
indiscutibile.
Bartleby lo scrivano, una storia di Wall Street La storia di Bartleby ci viene
raccontata dal suo datore di lavoro, titolare di uno studio legale nella
sempre più emergente Wall Street. Alle prese con un lavoro sempre
maggiore, il narratore decide di assumere al suo servizio un altro
scrivano e fa qui, dunque, la sua comparsa Bartleby.
Bartleby è un uomo taciturno, pallido, dimesso e sobrio; nel suo
cantuccio solitario, Bartleby è uno scrivano provetto, copiando
incessantemente documento dopo documento. Nemmeno una pausa per il
silenzioso eremita, cosa che rende il narratore colpito e perplesso.
Bartleby si presenta dunque come un lavoratore alacre e instancabile, ma
alle prime richieste che non riguardino esclusivamente la copiatura,
come ad esempio l’uscire per svolgere commissioni, Bartleby si sottrae
semplicemente con un “preferirei di no”. Il titolare resta basito dal
rifiuto dello scrivano nell’eseguire i suoi compiti, ma come disarmato
dal candore della risposta, finisce con il lasciar cadere la questione.
Inutilmente il narratore rinnova le sue richieste, ottenendo in cambio
sempre la solita risposta: preferirei di no. Assieme ad un giustificato
dispetto, cresce nel magistrato il desiderio di conoscere meglio la
strana figura che ha assunto nel suo ufficio; Bartleby è chiuso nel suo
guscio, imperscrutabile, a dir poco emblematico. Ma chi è Bartleby? Da
dove viene? Qual è la causa dei suoi perentori, quanto pacati, rifiuti?
Ad accrescere il disagio del narratore è poi l’improvvisa interruzione
del lavoro di Bartleby come copista; di punto in bianco, lo scrivano
pretende di non voler più scrivere, o meglio, preferirebbe non
farlo più, lasciando il suo padrone nell’impotenza di fronte alla sua
perentoria decisione. Bartleby passa ora le sue giornate fissando fuori
della finestrella dello studio, che dà su un muro. A niente valgono le
proteste, le suppliche, gli inviti accorati del legale di fronte alla
caparbia ostinazione dello scrivano. Bartleby vive nel suo mondo, un
mondo astratto e inaccessibile, un mondo sbarrato dalla continua
presenza di quel muro fuori dalla finestra.
Il narratore, ora impietosito, ora esasperato dal comportamento del suo
subalterno, decide di licenziare, sebbene a malincuore, lo strano
individuo, ma inutilmente; Bartleby non intende andarsene, preferirebbe non andarsene, e non se ne va.
Non sapendo più come doversi comportare, il legale finisce con il
trasferirsi in un altro palazzo, lasciando Bartleby al suo destino. A
distanza di poco tempo, però, il narratore viene a conoscenza delle
proteste degli inquilini del suo vecchio stabile, indispettiti dalla
presenza continua e spettrale dell’ex scrivano. Bartleby finisce così
col venire arrestato.
A questo punto il narratore, dispiaciuto per la fine di Bartleby, va a
trovarlo in prigione per assicurarsi che stia bene; la figura di spalle,
di fronte a un muro, testimonia che niente è cambiato in Bartleby.
L’uomo continua il suo compito di sognatore, di figura astratta ed
ascetica, di sovvertitore silenzioso, fino all’inevitabile fine.
La critica è molto dibattuta riguardo
l’interpretazione del racconto; Bartleby è chiaramente una figura
simbolica dai tratti evangelici: un moderno Gesù Cristo capace di vedere
oltre, inaccessibile ai comuni mortali? Forse. Sicuramente è un aspetto
da tenere di conto.
Ma la teoria che tendo ad accreditare di più è una sorta di critica
intrinseca alla società moderna; sempre più caotica, sempre più veloce,
moderna, inafferrabile, la società di Melville, di cui Wall Street ne è
l’astro nascente, è una società basata sul capitale e sulle leggi
burocratiche. Non più uomini, ma notai ed avvocati. Non più valori umani
ma capitali, azioni, denaro.
Bartleby è il simbolo del passato che tenta di dire no al futuro
incalzante. Ma un muro si oppone sempre di fronte alla sua figura; la
strada è sbarrata in senso contrario, si può solo andare avanti,
altrimenti si finisce con il restare a fissare solo un muro.
Ma il muro potrebbe anche indicare quell’effettiva barriera che divide il genere umano.
“Ah Bartleby! Ah, umanità!”
Un muro fra me e gli altri, una
costante instabilità che finisce col minare le convinzioni altrui ( i
continui ripensamenti e le crisi di coscienza del narratore, l’invasione
del verbo preferire all’interno dell’ufficio, che “contamina” anche gli altri assistenti del legale).
E altri racconti americani Gli altri racconti che compongono la raccolta non sono meno ermetici del precedente.
In Chicchirichì, ovvero il canto del nobile gallo Beneventano,
un uomo appesantito dai comuni problemi materiali (problemi pecuniari),
rinasce grazie al portentoso canto di un gallo, appartenente ad un
pover’uomo che si rifiuta di vendere il bene più prezioso che ha: il
canto del suo fedele gallo.
Ne I due templi, Melville
contrappone l’ostentata purezza della Chiesa al mondo più pagano del
Teatro. L’apparenza sacrale e caritatevole della Chiesa, viene
smascherata dall’effimero ambiente mondano che, paradossalmente, risulta
più di sostanza e genuino del primo.
Ne Il paradiso degli scapoli e il tartaro delle fanciulle
assistiamo a due scenari totalmente contrapposti: il mondo spensierato e
benestante degli avvocati, uomini scapoli e della buona società, a
quello infinitamente più triste e freddo di una cartiera, dove donne dal
colorito niveo, ripetono incessantemente il loro lavoro meccanico,
paragonate a Cristo per il loro sacrificio a discapito della loro virtù.
Jimmy Rose, protagonista del racconto
omonimo, è un uomo enormemente ricco e generoso che finisce col perdere
tutte le sue sostanze e vivere di un’indifferente, quanto
supponentemente tollerata, carità da coloro che gli erano amici ai tempi
delle sue ricchezze.
Jimmy Rose è la nemesi di Bartleby, in quanto accetta suo malgrado quel compromesso che lo scrivano rifiuterà fino alla morte.
Io e il mio camino è un
racconto dal tono più spensierato; narra della smodata ammirazione di un
uomo per il suo camino, che combatte in tutti i modi la sua famiglia,
che invece vorrebbe sbarazzarsene.
Conclusioni Decisamente quella di Herman Melville
non è una letteratura banale ed agevole; tra i riferimenti biblici ed
evangelici, le critiche velate ed i numerosi simbolismi, l’opera dello
scrittore americano presenta non poche difficoltà nella sua
interpretazione, oltre che nella sua lettura.
Consiglio: iniziate, come me, da racconti o romanzi minori prima di imbattervi nel ben più voluminoso capolavoro che è Moby Dick. Almeno per il primo incontro. Poi fate voi.
Giudizi contrastanti quelli che accompagnano il più o meno famoso Dio di illusioni, romanzo d’esordio di Donna Tartt.
Da quale parte della barricata schierarsi? A questo punto credo che sia veramente una questione di gusto personale.
Dal canto mio, non posso che considerarlo un libro molto, molto, sopravvalutato.
Siamo
in un esclusivo college del Vermont; Henry, Bunny, Francis, Charles e
Camilla rappresentano tutto ciò che Richard Papen, squattrinato
californiano, vorrebbe essere: bello, ricco, affascinante. L’unico modo
per entrare a far parte di quel gruppo è seguire le lezioni di greco, e
Richard lo fa. Pian piano viene accolto nella cerchia e il ragazzo si
sente al settimo cielo, finché qualcosa comincia a minacciare
l’idilliaco equilibrio del gruppo. Bunny sa un segreto che riguarda
Henry, Francis e i gemelli, ma che Richard non conosce. L’armonia
traballa sempre di più, fino a spezzarsi, quando Richard scopre il
segreto della discordia. I quattro ragazzi sono responsabili di un
brutale omicidio, avvenuto erroneamente durante il baccanale segreto da
loro organizzato. Bunny diventa quindi una minaccia, e una sembra essere
l’unica soluzione possibile.
_E da qui in poi consiglio la lettura solo a chi ha letto il libro, fino alle conclusioni, come al solito.
Considerazioni su Dio di illusioni: la trama, lo stile, i personaggi. Quattro (cinque) ragazzi coinvolti in
un orribile segreto, un omicidio involontario, e qualcuno che sa. Vi
ricorda qualcosa? A me sì; per esempio il film So cosa hai fatto, tratto dall’omonimo romanzo di Lois Duncan, scritto nel 1973. Che l’autrice de Il Cardellino
abbia preso ispirazione dal sopracitato libro? Le modalità sono
diverse, certo, ma subito è riaffiorato in me il ricordo, la sensazione
di una trama già vista, già sentita.
Ma tralasciando le fonti d’ispirazione, ci sono molti elementi che rendono Dio di illusioni un romanzo mal riuscito.
Innanzitutto lo stile.
Secondo i miei canoni (ed i miei gusti personali, ovviamente) ritengo
che la Tartt, per lo meno da quanto ho appurato in questo suo primo
romanzo, non sappia scrivere: lo stile è prolisso e poco fluido, molto
artificioso e poco coinvolgente. Innumerevoli sono i fatti e le
descrizioni altamente inutili che compongono questo romanzo,
contribuendo a renderlo molto più lungo di quanto in realtà sarebbe
stato necessario; seicento pagine che sarebbero potute benissimo essere
sintetizzate nella metà, se nelle mani di uno scrittore capace.
I personaggi sono troppo fittizi,
piatti e scialbi, nonostante l’autrice tenti in tutti i modi di renderli
interessanti, stravaganti, “diversi” insomma. Ma manca quella bravura
di fondo atta a rendere i protagonisti dei personaggi a 360°, con una
loro psicologia a tutto tondo. Chi sono infatti i protagonisti di Dio di illusioni?
Richard, colui che
funge anche da narratore in prima persona, paradossalmente è il più
insignificante del gruppo. Nonostante sia lui a raccontare la storia, _e
avendo quindi la funzione importantissima di coinvolgere maggiormente
il lettore proprio perché influenzato dal suo punto di vista_ , tutto
ciò che pensa e prova risulta come condensato da un soffuso strato di
ovatta, a causa del quale ogni suo pensiero o sentimento appare privo di
un’autentica emozionalità, rendendo il lettore incapace di partecipare
attivamente al suo stato emotivo.
Vi sono poi gli elitari, coloro che ci
vengono presentati dal narratore come una sorta di angeli, essere
trascendentali, se non addirittura degli dei, che altro non sono che dei
ragazzi ricchi, viziati e supponenti, chiusi nella loro cerchia
ristretta e inaccessibile per chiunque non ne faccia parte. Non
partecipano alla comune vita del college, non vanno alle feste
studentesche e non scambiano parola con chicchessia; il loro tempo
libero lo passano riuniti a bere e a fumare sigarette, giocare a carte,
leggere libri tra una sbronza e l’altra.
Merito di questo snobbismo classista è sicuramente Julian,
professore di greco che, tronfio della sua superbia, ha voluto
frapporre un muro tra sé e i suoi adepti con il resto del mondo, troppo
mediocre e misero per la sua persona, dedita alla magnificenza del mondo
classico.
Adorato e venerato dai suoi allievi, Julian è un uomo votato
esclusivamente alla bellezza, una bellezza particolare però, puramente
estetica, priva di contenuto: in definitiva, una bellezza sterile.
Ma più che la persona in sé, Julian mi ha disgustato nella sua figura di
professore: un maestro delle apparenze senza alcuno scrupolo morale
nell’isolare coercitivamente i suoi studenti (fatto allarmante di per
sé) e nell’instillare il culto del Dionisismo in giovani menti
influenzabili.
Il “mandante” dell’omicidio infatti non è altri che Julian, desideroso
di trasfondere nei suoi accoliti i suoi stessi ideali edonistici,
travisando in realtà gli ideali della cultura greca; perché assieme al
dionisiaco, esiste l’apollineo.
Henry, pedante
classicista, dall’aspetto austero e sostenuto, erudito e fin troppo
perfetto, è la mente malata che raccoglie il dado lanciato da Julian. È
lui che propone l’idea del baccanale, è lui che decide di eliminare
Bunny, è lui che muove gli altri come delle pedine. E proprio perché è
lui il personaggio di maggiore spessore, è lui che farà una fine tragica, epica, classica.
Il rifiuto del suo mentore, l’onta causata dal suo abbandono,
determinano in Henry il bisogno di un riscatto che dovrà ottenere col
sacrificio. Il suo.
Charles e Camilla, la
coppia di gemelli, segretamente amanti (sì, perché senza una relazione
incestuosa sarebbero stati troppo banali, no?), sempre inseparabili,
sempre a bere o a fumare. Camilla, ovviamente, essendo l’unica ragazza del gruppo è anche colei che viene contesa da tutti, fratello compreso appunto.
Charles, che all’inizio sembrava perlomeno un personaggio rispettabile,
viene trasformato, con l’avanzare della storia, in un alcolizzato
incallito e violento, così, di punto in bianco, giusto perché la Tartt
non sapeva che altro inventarsi.
Francis,
l’omosessuale del gruppo, è forse l’unico personaggio che si salva, che
ha una coscienza, seppur latente e per lo più ottenebrata dal suo amore
per Charles.
Alla fine, però, nessuno di questi
personaggi sviluppa una personalità talmente propria da renderlo unico e
indimenticabile. Manca quell’individualità che renda reale il
personaggio. Sono tutti uguali, semplicemente con delle differenze.
Bunny, altro elemento
del gruppo, appare odioso già prima del ricatto: ragazzo eccessivamente
esuberante, egoista e, a mio modesto parere, veramente stupido, è colui
che più degli altri vive di apparenza; appartenente a una famiglia un
tempo altolocata, Bunny non pare preoccuparsi dell’attuale situazione
economica della famiglia perché, grazie ad escamotage e alle sue
amicizie benestanti, riesce comunque a mantenere un alto tenore di vita.
Un ragazzo finto, superficiale, interiormente vuoto che finisce col
rendersi ulteriormente odioso quando comincia a ricattare (e neanche
esplicitamente) gli altri ragazzi.
Persino il suo crollo emotivo ha un che di fastidioso, semplicemente
perché del tutto irrazionale; lui, che è del tutto estraneo
all’omicidio, sta male, quando ai diretti interessati non fa minimamente
né caldo né freddo. Bunny inizia a interrogarsi sul senso della morale,
sul concetto di colpa e di peccato, sembrando quindi l’unico essere
dotato di coscienza in tutta la storia. Ma allo stesso tempo sfrutta il
segreto dei ragazzi per soddisfare ogni suo singolo capriccio. Dunque,
di che moralità stiamo parlando? Uccidere è immorale, ma ricattare sulla
base di tale uccisione no? Un concetto di etica alquanto distorto a
parer mio.
Inoltre comincia a diffidare di chiunque, a soffrire di paranoia…beh,
diciamo che se ti metti a ricattare la gente un po’ te lo devi anche
aspettare che poi ti vogliano fare la pelle eh.
Dunque, a costo di sembrare io l’immorale, sono stata contenta che un
personaggio vile, e alla fin fine abbietto, come Bunny venisse eliminato
dalla storia.
Ma adesso arriviamo alla parte più
“divertente” e soprattutto “verosimile” della storia. Sparisce Bunny e
dopo tre giorni vengono iniziate le ricerche dalla polizia, da
innumerevoli volontari, da squadre speciali con tanto di elicottero e
infine dall’ FBI. La SWAT e l’esercito no??
Via, quando mai per un ragazzo di 24 anni qualsiasi si mobilita tutta
questa gente? Poi la Tartt, rendendosi conto della puttanata (pardon)
che ha scritto, aggiunge la storia della ricompensa e della droga per
cercare di rimediare a cotanta assurdità.
Ebrietas nihil aliud est quam voluntaria insania. Nient’altro è l’ebbrezza che la volontaria pazzia. Il perno centrale del romanzo è il male. O meglio, la bellezza del male.
Julian afferma che la bellezza è terrore, frase sulla quale non mi ritrovo affatto d’accordo; la bellezza è anche terrore. C’è differenza.
Fin dai tempi più antichi, il male fa
parte dell’uomo e come tale affascina. Ma qui il male viene impostato su
due differenti piani: il male come accezione moderna, dal punto di
vista della colpa, e quindi della morale, e il male come conseguenza ed
espressione della libertà più totale, slegata dai vincoli morali che la
imprigionano.
I baccanali greci in onore di Dioniso non erano concepiti come culto del
male, ma come libera espressione degli istinti più selvaggi, della
forza vitale, della completa liberazione dello spirito scevro dalla
coscienza, e di conseguenza come simbolo di ricongiungimento col dio, il
“dio di illusioni” a cui si rifà il titolo, che è appunto Dioniso, un
dio dal duplice aspetto; da un lato egli è dio dell’estasi,
dell’ebbrezza e del vino, dall’altro è anche il dio della metamorfosi,
terrorizzante e irrazionale.
Per Henry, soprattutto, il desiderio
di andare oltre i confini della razionalità e della coscienza diventa
un’ossessione morbosa.
Ma nient’altro è l’ebbrezza che la volontaria pazzia. Il
decidere consapevolmente di svestirsi delle proprie inibizioni morali è
un atto di deliberata depravazione. Ciò che Henry vorrebbe, ovvero
raggiungere lo stato di amoralità, è impossibile perché nella cultura in
cui vive la moralità e l’immoralità sono concetti ormai legati
indissolubilmente a lui. Quindi il decidere di andare contro la morale,
seppur in una forma di amoralità, è già un atto di per sé immorale.
Henry stesso ammetterà, in seguito, che l’aver ucciso l’uomo nel bosco è stata l’esperienza più vivificante della sua vita.
Quindi, ripeto, nient’altro è l’ebbrezza che la volontaria pazzia.
Per quanto riguarda il male inteso come colpa, come peccato, la Tartt non riesce a svilupparne bene il concetto, né l’intensità.
Bunny, ripetiamolo, si interroga sul senso di colpa e peccato, mostrando però un atteggiamento immorale ricattando i ragazzi.
Dopo l’uccisione a sangue freddo dell’amico, Richard dichiara sempre di
fare sogni orribili, di avere fitte di malessere e paura, ma non sembra
sentirsi realmente in colpa, e così gli altri ragazzi.
La premessa del baccanale è del tutto inutile in quanto questi personaggi già non hanno una coscienza.
Conclusioni Sarà il fatto che nutrivo grandi aspettative per questo romanzo se ora non posso fare a meno di sentirmi delusa. Molto delusa.
La trama intrigava, parecchio. Ma lo stile lento, prolisso, l’incapacità
di compartecipare emotivamente con i protagonisti, le ripetizioni, le
forzature in generale, hanno distrutto quello che poteva essere un gran
bel romanzo.
È evidente lo sforzo della Tartt nel voler riuscire a stupire,
sconvolgere il lettore, così come è visibile la sua conoscenza della
lingua e della letteratura greco-latina, visti i grecismi e i continui
richiami classici di cui è permeato il libro, ma nonostante ciò per me
non riesce. La scrittrice non è riuscita nel trasmettere il significato
profondo del suo pensiero, non è riuscita a svilupparlo concretamente,
ecco.
Per finire, una piccola parentesi sul genere di questo romanzo, dato che c’è chi si trova in difficoltà nel doverlo catalogare.
Non è un giallo in quanto non è strutturato come un giallo (mancano
l’investigatore, gli indizi, la deduzione tipica del giallo classico);
non è un thriller, manca l’azione (questo libro è molto, molto lento);
non è un romanzo di formazione, semplicemente perché qui nessuno cresce,
i protagonisti vanno avanti nelle loro vite senza mostrare particolari
cambiamenti o maturazioni; non è interamente un noir, in quanto la
suspense è poco palpabile.
In definitiva: si tratta meramente di narrativa con tinte di mistery/noir.
Nel caso non ve ne foste accorti,
stanotte è Halloween! Avete preparato i costumi da indossare? E i
sacchetti in cui mettere i dolcetti? E la fotocamera/i-phone con cui
scattare le foto della serata? Sì? Bene, ma state attenti.
Se al posto del vostro amico ubriaco dovesse apparirvi raffigurato un enorme cane nero…datemi retta…SCAPPATE!
Il Fotocane Per il giorno del suo quindicesimo
compleanno, Kevin riceve in regalo la tanto desiderata macchina
fotografica e subito decide di inaugurarla con un ritratto di famiglia.
Mr e Mrs Delevan e la sorellina Megan si mettono in posa, un bel sorriso
e click! La foto viene sputata fuori dalla polaroid, ma invece della
famiglia attorno alla torta, i Delevan si ritrovano a fissare un cane
nero davanti ad un vecchio steccato bianco. Che diavoleria è mai questa?
Che sia un difetto? Uno strano scherzo? Kevin continua a scattare foto,
a vari soggetti in posti diversi, ma il risultato è sempre lo stesso:
il cane nero davanti allo steccato.
Desideroso di scoprire cosa si cela dietro quello strano fenomeno, Kevin
porta la sua Sun 660 al negozio di Pop Merrill, una sorta di factotum
della città. Ma nemmeno Pop è in grado di svelare il mistero che si cela
dietro la macchina fotografica. Osservando meglio le foto, però, Pop e
Kevin scorgono qualcosa di strabiliante: il cane della foto non è fermo!
È un cambiamento impercettibile eppure evidente: foto dopo foto, il
cane cambia posizione, fino a che non si accorge di essere fotografato. E
allora inizia a mostrare i denti.
Kevin comincia a intuire il pericolo della macchina e decide di
sbarazzarsi dell’oggetto prima che quell’essere mostruoso che si cela al
suo interno si sbarazzi di lui. Ma Pop ha in mente altri progetti…
Quattro dopo mezzanotte, caveat emptor Il fotocane è un racconto ambientato a Castle Rock, vi dice niente?
Come spiega King nell’introduzione, Il fotocane è una sorta di punto d’incontro tra due romanzi: Cujo e Cose preziose.
Durante l’arco del racconto, infatti, il fotocane viene paragonato ad un
altro cane, un sanbernardo per la precisione, famoso nella cittadina
per aver provocato morte e scompiglio, Cujo, appunto.
Qui il riferimento è palese, mentre per quanto riguarda Cose preziose è molto più latente, anche perché ai tempi della stesura del racconto, il romanzo non era ancora stato pubblicato.
Ne Il fotocane facciamo così, per la prima volta, conoscenza
con lo sceriffo Pangborn, Polly e Pop Merrill, che risulta essere lo zio
di Ace in Cose preziose.
La tecnica del crossover è spesso usata da Stephen King, che si diverte
nell’intrecciare tra loro fatti/personaggi/luoghi di diversi romanzi;
personalmente ‘odi et amo’ questo espediente narrativo perché se da un
lato provo una sorta di esaltazione nel riconoscere e rincontrare vecchi
personaggi, dall’altro mi innervosisce quando i fatti di cui si parla
sono avvenuti in romanzi che ancora non ho letto (in questo caso Cujo).
Altra peculiarità di King è la
modalità con la quale si ha la rottura dell’equilibrio iniziale dei
personaggi; due, infatti, sono le situazioni che solitamente portano il
protagonista alla complicazione della storia: o il tizio in questione se
la va letteralmente a cercare (e allora vien da sé che se lo merita),
oppure il tizio è semplicemente un povero sfigato che, meramente per
caso, si ritrova ad aver a che fare con orribili avversità ( al che, un
pensiero spontaneo subito emerge: “ma perché, poveraccio, proprio a
lui?”)
E’ il caso di Kevin, quindicenne con la testa a posto, che, come regalo
di compleanno, si ritrova tra le mani una macchina “stregata” molto
pericolosa.
Rientra invece nella prima categoria Pop Merrill; avido strozzino e
furbo come una faina, Pop decide di tenersi la macchina per avidità,
sperando di venderla a qualche stralunato appassionato di esoterismo, ma
sfortunatamente per lui nessuno sembra interessato.
Pop è persino consapevole del pericolo della macchina ma non gli
importa. L’unica cosa che conta sono i soldi. È abbastanza scontato che
da agente diventi agito, succube della malia della macchina che ormai è
sempre più potente.
Di nuovo, poi, come in Il Poliziotto della Biblioteca,
notiamo come i sogni siano la chiave ricorrente di King per permettere
al protagonista di trovare la soluzione al suo problema; è proprio
grazie ai suoi incubi se Kevin riesce a capire come fermare il fotocane.
D’altronde, la notte porta consiglio, no?
Conclusioni Dopo ben tre lunghi (e quando dico
lunghi, intendo lunghi) racconti, devo ammettere che ho fatto fatica a
leggere quest’ultima storia; non perché non fosse meritevole come le
altre, ma forse arrivare a quota quattro, tutto di seguito, è stato
troppo per me. Devo ammettere comunque che è stato il racconto che mi ha
coinvolto di meno.
I migliori restano senz’altro I langolieri e Finestra segreta, giardino segreto.
Voto: ★★★
Il ciclo di Halloween dei “brividi del
venerdì” finisce qui ( alleluia!). Mi raccomando, divertitevi stanotte,
recitate ‘trick or treat’, ma non fate troppo tardi: dopo la mezzanotte
possono accadere fatti strani e misteriosi!
Buonanotte e sogni…da paura! ;)
Per un lettore credo non esista
posto più bello di una biblioteca. Un luogo sicuro, calmo, silenzioso,
dove fantasia e realtà diventano magicamente un tutt’uno. Ma cosa
succede se la biblioteca in questione si rivela un luogo oscuro, tetro,
abitato da spaventosi spettri del passato che dimorano in silenzio, in
attesa di cibarsi delle tue paure?
Il Poliziotto della Biblioteca Su consiglio della bella segretaria
Naomi, Sam si reca alla biblioteca pubblica di Junction City alla
ricerca di un libro che lo aiuti nel redigere il discorso che dovrà
tenere presso il noto circolo del Rotary Club la sera stessa. Sam non va
spesso in biblioteca, anzi mai, ma quella in particolare istintivamente
non gli piace: l’atmosfera fredda e austera, gli alti soffitti scuri e
il silenzio mortale che vi regna, lasciano dentro di lui una sensazione
di gelido timore; ad aumentare il suo disagio sono i manifesti
terrificanti appesi nella sezione dei ragazzi. Uno in particolare evoca
in lui un senso di atavico terrore: il manifesto che avverte di
riportare i libri in tempo se non si vuole avere a che fare con la
polizia bibliotecaria. Però, che idiozia! Non esiste una polizia
bibliotecaria! Eppure, quell’uomo minaccioso ritratto nel manifesto è
capace di inquietare Sam fin nel midollo.
La conoscenza con Ardelia Lorz, la bibliotecaria, non migliora certo le
sue prime impressioni: una vecchia signora che sorride con le labbra, ma
dallo sguardo di ghiaccio, faziosamente gentile e compita che non
accetta di essere contraddetta. Una vecchia arpia, insomma.
Il discorso di Sam è un successo
clamoroso e nei giorni successivi il pensiero dei libri e della
biblioteca è ben lontano da lui, preso com’è dal suo lavoro e i suoi
impegni. Ma il messaggio di Ardelia Lorz nella segreteria telefonica di
Sam gli ricorda che il termine è scaduto, e il poliziotto della
biblioteca non tarda a presentarsi a casa sua. Alto come un colosso,
bianco come un cadavere, lo sguardo truce e una cicatrice sotto
l’occhio, il poliziotto del manifesto è adesso in carne ed ossa a casa
di Sam. Il suo aspetto minaccioso non inganna sulle sue intenzioni. Sam
dovrà riconsegnare i libri alla biblioteca o il coltello che tiene in
mano finirà presto nella sua gola.
Letteralmente terrorizzato, Sam comincia a cercare i libri ovunque ma
non riesce a trovarli da nessuna parte; cerca di fare mente locale e
finalmente ricorda dove li ha messi: nella scatola in cui tiene i
giornali vecchi che Dave Duncan, il barbone alcolizzato della città,
raccoglie e porta alla discarica ogni settimana, per racimolare qualche
soldo.
I libri sono definitivamente perduti e Sam è in preda al panico all’idea
di dover riaffrontare il poliziotto della biblioteca. Ma chi sono lui e
Ardelia Lorz? Perché le persone a cui chiede informazioni sulla donna
cominciano a urlare sgomente?
L’unico a sapere qualcosa è proprio il vecchio Dave Duncan, e solo lui e
Naomi possono aiutarlo. Sam ancora non lo sa, ma presto dovrà
affrontare una presenza malefica che ha a che fare con il suo passato e
le sue paure più recondite.
Le tre di notte: vienicon me, figliolo…fono un poliziotto Il Poliziotto della Biblioteca
è un racconto “multistrato”, in cui due sono i principali nuclei
narrativi: la storia che ruota attorno a Sam e quella che si incentra su
Dave.
Due episodi evidentemente diversi che si intersecano goffamente tra
loro: da una parte Sam e il suo Poliziotto della Biblioteca, dall’altra
Dave e la malefica Ardelia.
King utilizza lo stratagemma della ‘storia nella storia’ per convogliare
le due vicende in un unico racconto, espediente a cui l’autore ricorre
altre volte, ma con il quale stavolta fa cilecca.
Il risultato infatti, almeno a parer mio, è un po’ disastrato: anche
accettando questo connubio generale, si percepisce una disomogeneità
globale dell’opera; due storie troppo dissimili per amalgamarsi, che
finiscono solamente per cozzare l’una contro l’altra.
Schematizzando il racconto viene fuori una struttura di questo genere:
Sam si reca in biblioteca- Sam conosce Ardelia Lorz- Il manifesto del
poliziotto della biblioteca fa riaffiorare paure infantili di Sam- Sam
perde i libri- Dave è il responsabile- Il poliziotto della biblioteca fa
visita a Sam -Sam si reca da Dave- Dave racconta di Ardelia e la sua
storia- Sam ricorda l’uomo-talpa, il suo poliziotto della biblioteca-
Dave, Sam e Naomi vanno alla biblioteca per combattere Ardelia.- Ardelia
vuole Sam – Sam sconfigge il suo poliziotto della biblioteca e Ardelia.
Insomma, le sequenze narrative hanno
un che di forzato, prive di un legante concreto _ vi basti pensare al
fatto che l’unico trait d’union delle due vicende è la semplice
conoscenza tra Sam e Dave _.
Il poliziotto personale di Sam è
l’uomo-talpa, un uomo che, dichiarandosi poliziotto della biblioteca,
violenta il piccolo Sam, ma il poliziotto della biblioteca raffigurato
sul manifesto ad opera di Dave è completamente diverso. Allora mi
chiedo: come diavolo fa Sam a collegare istintivamente due figure tanto
diverse? È solo la formula magica “poliziotto della biblioteca” a
riaprire in lui il varco con un passato tanto doloroso e ormai rimosso?
Probabilmente, ma così si spezza quel legame, quel continuum
tematico/narrativo che si andava formando col poliziotto del manifesto,
un personaggio che di per sé bastava a rendere interessante la storia, e
che invece finisce per essere solamente un figurante.
Il trauma infantile di Sam non ha
niente a che fare con Ardelia Lorz: è questo che spezza la storia in
due. E King si è sforzato di riunire i cocci.
I libri, poi, non sono altro che un semplice pretesto di Ardelia, e dello stesso King, per dare il via a tutto ciò che segue.
Che dire poi di Ardelia Lorz? Una
figura losca, oscura, che detiene un fascino morboso sia su Dave che sul
lettore. L’aura malefica e misteriosa che circondano Ardelia ed il
timore superstizioso legato al suo nome, la rendono un personaggio
intrigante e vincente.
Ma (perché c’è sempre un ‘ma’) King decide di optare per una scelta non
poco demenziale; se Ardelia fosse stata una strega, un vampiro, un
demone, quello che vi pare, sarebbe stata perfetta,
ma renderla una sorta di mostro alieno ha un che di trash spaventoso. Un alieno/insetto molliccio/ mutaforme? maddai! E’ una caduta di stile mostruosa! Certo è che il bello di King è anche
questo: fregarsene altamente di tutto e di tutti e spiazzare il lettore
anche con trovate a dir poco kitsch.
Conclusioni Il Poliziotto della Biblioteca
parte non bene, ma benissimo. Poteva arrivare ad essere una storia
veramente bella, ma, ahimè, King cade di tono (vabbè dai, ti perdono).
Di nuovo, come in Finestra segreta, giardino segreto, vi è
quell’angoscia che attanaglia il lettore nel compartecipare allo stato
emotivo ansiogeno che pervade il protagonista, impossibilitato nella sua
corsa contro il tempo, alla ricerca di quei libri maledetti che possono
costargli la vita (oltre che la sanità mentale).
Quindi, ordunque, lo consiglio? Nì. Non è un racconto imperdibile, ma
nemmeno così pessimo; se siete fan/groupie/collezionisti dell’autore,
viene da sé il monito/dovere interiore di leggerlo.
Comunque, in ultimo ma non ultimo, un doveroso accorgimento: la scena
della violenza sul piccolo Sammy è descritta in modo orribilmente vivido
e impietoso, indi astenersi se gentili d’animo e troppo sensibili. Bye.
Rieccoci alle prese con Quattro dopo mezzanotte by Stephen King.
Quest’oggi parliamo di Finestra segreta, giardino segreto, forse più noto agli ingenui spettatori come Secret window.
Ebbene sì, Secret window non è altro che una scadente riproduzione cinematografica di questo racconto. Ma del film parlerò dopo.
Finestra segreta, giardino segreto State dormendo beatamente sul divano
di casa vostra quando un tizio mai visto né sentito bussa alla vostra
porta e vi accusa di plagio. È quello che succede a Mortimer Rainey,
scrittore di mediocre successo, reduce da una dolorosa separazione dalla
sua ormai ex consorte Amy.
L’intransigente straniero lascia a Mortimer una copia del suo
manoscritto, che si rivela praticamente identico al vecchio racconto di
Mort, “Finestra segreta, Giardino segreto”.
La coincidenza è troppo straordinaria perché sia dovuta a un caso, ma
Mort è sicuro che sia stato ill misterioso Shooter a copiarlo e non
viceversa. Ma, come afferma John Shooter, servono le prove e Mort è in
grado di dimostrare la paternità del racconto grazie alla data di
pubblicazione su una rivista custodita nella sua vecchia casa di Derry.
Tre giorni sono il limite di tempo che Shooter concede a Mort perché
recuperi la suddetta rivista, _a patto che esista!_ dopo di che Mort
dovrà prepararsi al peggio.
Per avvalorare ulteriormente le sue minacce, Shooter uccide il gatto di
Mort usandolo come promemoria. Contemporaneamente la casa di Derry
finisce ridotta in cenere dalle fiamme di un incendio chiaramente
doloso, e addio rivista.
È evidente che Mortimer è alle prese con un vero e proprio psicopatico.
Così chiede al vicino, Greg Carstairs, di controllare i movimenti di
Shooter e di andare dal vecchio Tom Greenleaf che, passando col suo
furgoncino, li ha visti parlare insieme e forse sa qualcosa su questo
John Shooter, nazionalità Mississippi.
Nel frattempo Mort si reca a Derry, dove trova Amy e il suo nuovo compagno Ted, per parlare con la polizia e l’assicurazione.
Tra Mort e Ted non corre buon sangue, essendo quest’ultimo l’uomo che Mort ha sorpreso a letto con Amy mesi prima.
Concluse le formalità, Mort torna a Tashmore, dove Greg lo informa che
Tom afferma di non aver visto nessuno assieme a lui. Perché Tom mente?
Che Shooter lo abbia minacciato? Sarà bene parlare direttamente con Tom,
ma prima Mort chiama il suo editore per chiedergli di farsi spedire la
rivista sulla quale si trova il suo racconto. Prima finisce questa
storia e meglio è. Ma quando Tom non si presenta a lavoro e Greg
all’appuntamento che si erano dati, Mort capisce che è già troppo tardi.
Abbandonata su un sentiero nel bosco, Mort ritrova la macchina di Greg
con dentro lui e il vecchio Tom, morti. Nel cranio di Greg e Tom, il
cacciavite e l’ascia di Mort. Quel pazzo di Shooter è stato in casa sua!
Ne è la prova il cappello nero di Shooter che trova sulla veranda di
casa.
L’unica chance di salvarsi è la rivista. E finalmente arriva, ma…
Le due di notte. È Stagione di semina In questo racconto di King ci troviamo
alle prese con uno scrittore affetto da un disturbo dissociativo di
identità e schizofrenia. Spunto già di per sé interessante, è reso
ancora più accattivante da due fattori: 1. il fatto che fino alla fine
non sappiamo che Mort Rainey e John Shooter sono in realtà la stessa
persona; 2. la motivazione inconscia che spinge la coscienza di Mort a
questa tremenda scissione della sua mente.
Perché, infatti, Mortimer Rainey, uomo che ha vissuto un’esistenza in
fin dei conti normale, si ritrova all’improvviso a soffrire di una
malattia mentale grave come un disturbo di personalità multipla?
Tutto ha origine da un episodio accaduto nella giovinezza di Mort; al
college, Mortimer frequenta un corso di scrittura creativa in cui è uno
dei più bravi, ma migliore di lui è il compagno John Kintner. Un
racconto in particolare riscuote enorme successo nella classe, “Il corvo
e la volpe”, racconto che Mort conserva senza ben sapere perché.
Dopo qualche anno, Mort invia ad una rivista vari racconti che
puntualmente vede respinti, così decide di mandare il racconto di
Kintner firmandolo col suo nome. Ma quando “Il corvo e la volpe” viene
accettato, Mortimer si ritrova a dover combattere contro una crisi di
coscienza morbosa, un senso di colpa ai limiti del parossismo. Comincia
addirittura a progettare il suicidio nel caso qualcuno riconosca il suo
furto letterario.
Ma il tempo passa e il terrore di un’accusa di plagio scema, finché
l’inconscio di Mort non decide di seppellire definitivamente
quell’episodio scabroso della sua vita nei reconditi più oscuri del suo
cervello.
Mort è ormai un affermato scrittore
quando i lavori per la trasposizione cinematografica di una sua storia
vengono bloccati per la scoperta dell’esistenza di una sceneggiatura
simile al suo romanzo. E Mort rivive il trauma della vergogna di un
possibile plagio, nonostante stavolta sia del tutto innocente e vi siano
semplicemente delle somiglianze tra i due scritti.
Nessun vero problema a livello legale quindi, ma la mente di Mortimer silenziosamente scava nel passato. E scava, e scava.
L’immagine di Amy e Ted a letto
insieme è come una folgore che si imprime nella mente di Mort. La
pistola che ha portato con sé non è carica, giusto?
Una mente fragile, fragilissima, che
colpo dopo colpo si infrange definitivamente. Questa è la causa del
crollo di Mort: una mente troppo debole dinanzi ai duri attacchi che la
vita gli lancia contro.
Insomma, perché compare John Shooter? Shooter è sì la nemesi di Mort, ma
è anche il suo personale giustiziere, la voce della sua coscienza che,
stanca di tenersi dentro un senso di colpa tanto forte, riemerge
trionfante, ormai senza controllo. Non si tratta più di riparare a un
torto del passato, adesso è il momento di pagare, e con gli interessi.
E allora quel racconto di vitale importanza, “Finestra segreta, giardino segreto”, non potrà mai essere ritrovato.
Il perché, poi, si concentri su un
racconto che in realtà è frutto della sua testa, è stato per molto tempo
un punto interrogativo, finché ho pensato che, probabilmente, la sua
mente malata si sia concentrata su quel racconto perché era l’unico che
avesse riscosso un successo tangibile: così come aveva rubato il
racconto di Kintner, adesso aveva rubato quello di Shooter, come se
secondo il suo cervello fosse impensabile supporre Mort capace di
scrivere un vero successo.
E se in un primo momento mi ero
chiesta: _ma che senso ha informare Greg se così facendo dopo lo deve
uccidere?_, poi ho finalmente capito: la necessità di uccidere Tom e
Greg è data semplicemente dal fatto che Mort deve avvalorare, deve concretizzare, l’esistenza dello psicopatico che la sua mente ha creato.
Non solo.
Il fatto che Shooter utilizzi il cacciavite e l’accetta di Mort serve appositamentead incolparlo, è la sua coscienza che lo punisce letteralmente per ciò che ha fatto in passato.
Per questi motivi non ho minimamente apprezzato il film.
Secret window Se nel racconto, l’origine scatenante
del tracollo di Mort è il suo senso di colpa, nel film tutto ciò viene
semplicemente imputato all’infedeltà della moglie. Un tantino scarso,
non trovate? Il tradimento di Amy è stato il fattore scatenante, la
classica goccia che ha fatto traboccare il vaso, ma non il motivo
primordiale. Anche perché se così fosse, metà della popolazione mondiale
dovrebbe dare di matto e sdoppiarsi in uno psicopatico omicida. Poi che
c’entra, la mente umana è un mistero data la sua imprevedibilità, ma mi
pare comunque esagerato come presupposto.
Sta di fatto che, a causa di questa manipolazione narrativa, nel film
viene completamente travisata la causa dello sdoppiamento di Mort e
diventa quindi assurdo il fatto che Mort nasconda le uccisioni di Tom e
Greg (cosa che infatti nel racconto non avviene, in quanto sono la sua espiazione);
la mente non è mai del tutto divisa, l’inconscio è uno ed uno soltanto,
quindi non ha senso che Mort informi Greg di Tom e Shooter, e che poi
questi li ammazzi perché non si possa risalire a lui, e Mort ne occulti i
cadaveri perché altrimenti verrebbe incolpato. Mi seguite?
Non mi è piaciuta neanche la scelta
del regista di rivelare la pazzia di Mort tutta insieme, spiegando per
filo e per segno come sono andate le cose.
Secondo me sarebbe stato più d’effetto tenendo all’oscuro lo spettatore
fino all’ultimo: Mort torna a casa e indossa il cappello di Shooter. La
scena si sposta su Amy che arriva a Tashmore, entra in casa e trova
tutto a soqquadro. Poi appare lui, Shooter.
Non sarebbe stato più d’impatto in questo modo?
Poi ovviamente, per avvalorare la creazione di Shooter nella mente di
Mort secondo l’adattamento cinematografico, il suo nome si è ricomposto
in ‘shoot her’, sparale, cioè a lei, Amy, che è la causa del suo delirio.
In ultimo il finale, completamente
diverso dal libro; le due personalità si fondono in un tutt’uno e il
“nuovo” Mort traduce in realtà il finale del suo racconto.
Ecco, questo finale non ha senso: in questo modo sembra che la mente di
Mort abbia creato Shooter solo per far emergere la parte “cattiva” di
Mort, il quale alla fine, prendendo coscienza del suo lato oscuro, si
“riappacifica” e ricongiunge con la personalità abusiva di Shooter. Ma
la sindrome di personalità multipla non funziona così: sì, l’altra
personalità emerge per difesa, dopo un trauma o forti repressioni del
Super Io, per dirla alla Freud, ma non può semplicemente rifondersi alla
personalità di base, perché si tratta di identità completamente
diverse, con la propria indole e peculiarità.
Quindi, insomma, no, non mi è piaciuto affatto il film.
Conclusioni Come lo stesso autore afferma nell’introduzione al racconto, Finestra segreta, giardino segreto riprende quella tematica (ovviamente con delle differenze) dello sdoppiamento che già era presente ne La metà oscura
(che vi consiglio assolutamente di leggere!), in cui il bene e il male
fanno parte della stessa faccia della medaglia. Non esiste il buono e il
cattivo, esistono solo le nostre scelte che inevitabilmente ci portano
ad essere ora l’uno, ora l’altro.
C’è da dire anche che Finestra segreta, giardino segreto non è
il solito racconto di King: molto più introspettivo, è un racconto
claustrofobico, un crescendo di tensione psicologica in cui un senso di
apnea ansiogena accompagna il lettore in concomitanza con il
protagonista; se Mort perde sempre più pezzi quanto più la rivista non
viene ritrovata, così anche noi ci sentiamo intrappolati nella morsa
letale di Shooter.
Il finale, quello vero, è poi un classico di King, in cui la realtà e il
soprannaturale si mescolano e niente è certo. Neanche per il lettore.
Quattro dopo mezzanotte è
una raccolta di racconti fanta-horror scritti da Stephen King; le ultime
edizioni italiane sono divise in due volumi, contenenti due racconti
ciascuno, ma io ho recuperato una vecchia edizione che presenta
interamente le quattro storie. I quattro, lunghi, racconti che troviamo
in questo libro sono:
I langolieri
Finestra segreta, giardino segreto
Il Poliziotto della Biblioteca
Il fotocane
Come ho detto non si tratta di
racconti brevi, ma di storie che potrebbero benissimo essere considerate
come dei romanzi brevi, ragion per cui tratterò di questi racconti
separatamente.
Ha inizio il ciclo di Halloween della rubrica “I brividi del venerdì” con Quattro dopo mezzanotte.
Stay tuned!
I langolieri Il comandante Brian Engle, pilota di
linea, riceve la notizia della morte della sua ex moglie proprio dopo
aver sostenuto un lungo e difficile volo da Tokyo verso Los Angeles.
Senza nemmeno avere il tempo di riprendersi un attimo, si imbarca sul
volo diretto a Boston, per raggiungere la salma della defunta. La
spossatezza per il volo precedente catapulta Brian nel mondo dei sogni.
A risvegliare Brian è l’urlo di Dinah, una bambina cieca che, dopo
essersi svegliata dal suo pisolino, si ritrova completamente sola e
terrorizzata. Non meno spaventato sarà Brian quando scopre che l’aereo
si è misteriosamente spopolato; unici superstiti del volo 29 sono lui,
Dinah, il giovane Albert, il vecchio scrittore di gialli Bob Jenkins, il
misterioso Nick Hopewell, la bella Laurel, l’adolescente Bethany, il
signor Gaffney, il famelico Rudy Warwick e il mentalmente instabile
Craig Toomy.
Dove diavolo sono finiti gli altri passeggeri? Persino il personale
dell’aereo si è volatilizzato nel nulla. Che sia uno scherzo? Un sogno?
No, è tutto troppo spaventosamente reale. Ad aumentare il
panico contribuiscono la vista del niente fuori dei finestrini e
l’impossibilità di contattare qualcuno via radio (nonostante gli
strumenti di bordo funzionino come loro solito).
Che fare dunque?
Brian prende subito il controllo dell’aereo rimasto sotto la rotta del
programma del pilota automatico. Raggiungere Boston, il cui aeroporto è
di difficile atterraggio già in condizioni normali, è troppo rischioso,
così Brian decide di fare scalo a Bangor.
L’atterraggio riesce, ma ciò che i pochi passeggeri rimasti hanno
trovato al loro risveglio sul volo 29 si ripete nell’aeroporto di
Bangor: il deserto completo. Ma non solo. L’elettricità non funziona, il
cibo è insapore, gli odori inesistenti, persino l’aria ed il suono sono
anomali, come ovattati, senza vita.
Dopo numerose elucubrazioni si arriva ad una possibile spiegazione:
durante il volo, l’aereo ha attraversato uno strappo temporale,
catapultando i presenti nel passato e, per qualche motivo sconosciuto,
solo chi dormiva è rimasto in vita, gli altri si sono vaporizzati,
spariti nel nulla.
A complicare le cose c’è poi il signor Toomy, uno psicolabile in preda a
una crisi psicotica; lui deve andare assolutamente a Boston o i
langolieri lo prenderanno! Il suo crollo delirante è cominciato e si
sfoga su Dinah prima, e su Gaffney dopo.
Ma chi sono i langolieri? Secondo Craig sono degli esseri mostruosi che
si accaniscono sulle persone pigre e indolenti, così come gli raccontava
suo padre quando era piccolo.
Che siano dunque i langolieri la causa dello strano, quanto inquietante, rumore che man mano si fa sempre più forte?
Nessuno sa il perché, ma di una cosa sono tutti convinti: se ne devono andare. Ma dove?
Forse il varco temporale che li ha catapultati nel passato è ancora
aperto; forse ripercorrendo la stessa rotta al contrario riusciranno a
tornare nel presente. Forse.
Intanto l’unica cosa da fare è andarsene, prima che quel rumore mostruoso si avvicini. Ancora di più.
È l’una di notte e tutto va bene (o quasi)! L’idea di fondo de I langolieri è buona; il racconto è scritto e strutturato bene (per forza, si tratta di King), ma vi sono altresì dei punti deboli.
Primo, l’errore più grossolano, e di
cui sinceramente non capisco la ragione se penso ad un professionista
come King, è il fatto di aver posto il passato a levante. Secondo il
movimento rotatorio della Terra, sarebbe stato logico capovolgere il
volo da Boston verso Los Angeles per far sì che l’aereo si ritrovasse
nel passato, no? Quindi perché?
Secondo punto: solo attraverso
l’incoscienza si può viaggiare nel tempo? Perché mai? Il tempo è anzi
una concezione percepibile solo tramite la coscienza; sebbene il tempo
esista a prescindere da qualsiasi cosa, resta pur sempre un concetto che
si associa alla ragione umana; per gli animali, che sono privi di tale
percezione, il tempo infatti non esiste.
Allora, se durante il sonno la ragione è assopita, in quel frangente il
tempo non esiste, quindi sarebbe stato più probabile supporre che chi
dormiva sarebbe scomparso nel nulla, e chi fosse rimasto sveglio si
sarebbe ritrovato catapultato nel passato.
Terzo. Se anche tutti i passeggeri
fossero rimasti svegli, perché loro si sarebbero volatilizzati nel
niente, mentre l’aereo no? Il tempo ha effetto sulla materia, di
qualsiasi tipo si tratti. Perché un essere umano dovrebbe
smaterializzarsi nel nulla ed un aereo no? Il tempo è tempo e la materia
è materia.
Ovviamente, il punto 2 e 3 erano
necessari per lo sviluppo stesso della storia, altrimenti niente di ciò
che viene raccontato sarebbe potuto avvenire, e quindi li ho accettati
chiudendo un occhio; ma il primo punto trovo che sia veramente un
elemento disturbante nella linearità della logica della storia (se di
logica vera e propria si può parlare visto il tema arcano).
Caratterizzazione dei personaggi I personaggi di King sono sempre più o meno i soliti:
il protagonista, l’eroe indiscusso della storia (Brian Engle)
Il ragazzino sveglio (Albert Kaussner)
il bambino particolare, dotato di non meglio definibili poteri psichici (la piccola non vedente Dinah)
la bella mediamente intelligente e arguta, insomma lo stereotipo femminile di King (Laurel Stevenson)
il vecchio saggio (Bob Jenkins)
personaggi inutili di contorno (Gaffney, Warwick)
lo psicopatico di turno (Craig Toomy)
Il personaggio di Craig Toomy è
magnificamente rappresentato nella sua turbe psichica: l’infanzia
traumatizzata dalla rigida disciplina del padre e dai suoi racconti
terrificanti sui langolieri, la sua adolescenza mortificata dagli abusi
della madre alcolizzata, hanno reso Craig il perfetto, futuro, psicotico
paranoide. Se da un lato la sua morbosa ossessione di andare a Boston
sia un tantino odiosa di fronte all’evidenza di una situazione ben più
grave che raggiungere Boston, dall’altro è un personaggio che ispira
profonda pena se si pensa al perché sia diventato quello che è.
La sua morte poi è l’ennesimo abuso che quel sadico di King affibbia
sulle spalle del povero Craig: una morte inverosimile e, proprio per
questo, più spettacolare e terribilmente impietosa.
Merito della penosa dipartita di Craig è anche Dinah, bambina che, sebbene cieca, ha il potere di una seconda vista e di riuscire a spingere quel povero folle di Craig verso la sua morte.
Questa volta però King ha aggiunto un
personaggio nuovo, diverso dal suo solito stile, che io ribattezzerò
come “il figo cazzuto” ( lo so, è un termine molto professional ), alias
Nick Hopewell.
Personaggio in buona parte enigmatico, è altresì evidente che la vita di
Nick ha a che fare con l’esercito o simili: quando Craig comincia a
dare in escandescenze urlando di andare a Boston, Nick, con una presa
subitanea, intrappola tra le sue dita il naso di Craig “Gircollo” Toomy.
Forte, agile, intelligente, freddo e razionale, senza mancare comunque
di istinto e di spirito, l’inglese Nick Hopewell rappresenta il
prototipo dell’uomo perfetto.
E quindi King cosa fa? Pensa bene di toglierlo di mezzo proprio all’ultimo.
La rabbia.
Se ho potuto trovare un difetto a Nick è stato proprio sul finale; il
voler fare l’eroe e sacrificarsi per gli altri, non solo ha un che di
inverosimilmente troppoeroico e “romantico”, ma mi ha dato personalmente sui nervi! E che cacchio, sei il più figo della storia e vuoi morire?!
Ripeto, la rabbia.
Finale sgargiante A concludere la storia è un finale
scenografico. Per rendere il tutto più spettacoloso, King aspetta a dare
la buona notizia, e subito ho imprecato pensando che la morte di Nick
fosse stata inutile. Ma non è così.
Se il passato è morto, allora il futuro non solo è vita, ma è una vera e
propria nascita. Se il passato è scialbo e misero, il futuro è un
trionfo di colori ed estasi. Ed è proprio così, infatti, che i
superstiti del volo 29 tornano alla loro realtà: in un’esplosione di
sensazioni e gioia di vivere.
Conclusioni Il primo racconto che apre il volume di Quattro dopo mezzanotte è un viaggio nella fantascienza, accompagnata qua e là da sprazzi di sano horror 100% stile King.
La trama di questo racconto è un susseguirsi di imprevisti che affannano
gli sfortunati protagonisti fino alla fine. Non c’è tempo per riposare,
non c’è tempo per pensare. Il ritmo incalzante e la curiosità morbosa
spingono il lettore in un’irrefrenabile lettura tra le pagine di persone
scomparse, viaggi temporali e mostruose creature divora-tutto
denominate, appunto, i langolieri.
Come in molti ambiti, anche l’arte
dello scrivere conosce varie scuole di pensiero; una di queste si
riassume nel conciso asserto “scrivi di ciò che sai”, e John Fante si
rifà sicuramente a questa tesi. Praticamente tutte le opere di Fante
sono rielaborazioni autobiografiche dell’autore italo-americano, e 1933. Un anno terribile non fa eccezione.
Scritto negli anni ’50, ma pubblicato postumo nel 1985, 1933. Un anno terribile
è un breve romanzo di denuncia simbolica e di un possibile riscatto, in
cui lo scrittore rievoca i luoghi e le condizioni della sua infanzia. Dominic Molise, diciassettenne di
origini italiane, vive nella povertà di un’America in crisi, infingarda e
disillusa; il sogno americano, che ha spinto i suoi avi a lasciare
l’Abruzzo per una terra di promesse, si è concretizzato in un’amara
delusione per la famiglia Molise. Il padre di Dominic, muratore
disoccupato, provvede alla sua famiglia giocando a biliardo su
scommessa, in attesa che il figlio, finita la scuola, si metta a
lavorare con lui.
Ma Dominic non ha intenzione di seguire le orme paterne, ha ancora una
speranza di farcela grazie al Braccio; lanciatore eccezionale, Dominic
sogna, anzi sa, che grazie al suo braccio sinistro riuscirà a
lasciare la misera cittadina di Roper per entrare a giocare da
professionista in una squadra di baseball, magari con i Cubs.
Con il suo migliore amico Kenny, Dominic si allena tutti i giorni nello
scantinato del padre dell’amico, dove i due ragazzi, tra un lancio e
l’altro, fantasticano sul loro roseo futuro nel baseball, finché a Kenny
viene un’idea: perché non anticipare i tempi e partire subito per la
calda California? Dopo un’iniziale titubanza, Dominic accetta, ma c’è un
grosso problema da risolvere: trovare i soldi per finanziare il
viaggio.
Il desiderio di partire diventa un’urgenza. Andarsene, subito, o mai più.
American dream, Joyce e la teodicea. Il perno centrale del romanzo è il
sogno; il sogno come forma di evasione, il sogno come forma di
rivincita, il sogno come speranza, come ultima risorsa per continuare a
vivere.
“Sognatori, eravamo una
casa piena di sognatori. La nonna sognava la sua casa nel lontano
Abruzzo. Mio padre sognava di essere senza più debiti e di fare il
muratore a fianco di suo figlio. Mia madre sognava la sua ricompensa
celeste con un marito allegro che non scappava via. Mia sorella Clara
sognava di fare la suora, e il mio fratellino Frederick non vedeva l’ora
di crescere per diventare un cowboy. Se chiudevo gli occhi riuscivo a
sentire il ronzio dei sogni per tutta la casa, poi mi addormentai.”
Un’America fatta di tanti piccoli sogni che uno ad uno vengono spezzati. O forse no?
Dominic proviene da una famiglia di
poveri immigrati e l’unico futuro che hanno da offrirgli è quello di
intraprendere la sterile carriera di muratore, che il ragazzo però non
ama. Le uniche passioni nella vita di Dominic sono il baseball e Dorothy
Parrish.
Il baseball è l’unica cosa che appaga Dominic; il Braccio, il suo
Braccio, è la promessa di un futuro migliore e ricco di gloria; il
Braccio non è un semplice arto, ma la chiave del suo successo, un essere
a se stante, con una sua volontà. Vi è una vera e propria umanizzazione
del Braccio: Dominic gli parla, lo consola quando freme od è triste, se
ne prende cura come di un neonato, spalmandolo costantemente di balsamo
Sloan. Il Braccio parla e dice a Dominic di non disperare.
In questo altalenarsi di sogni e
disillusioni esistenziali, si inserisce la parentesi amorosa:
l’attrazione morbosa di Dominic per Dorothy, la sorella di Kenny. Bella,
universitaria e di famiglia benestante, Dorothy è il sogno proibito di
Dominic; regina glaciale, venerata e idealizzata, Dominic cerca
disperatamente un contatto con lei, e quando finalmente l’ottiene, tutto
il suo ardore adolescenziale esplode in una disperata libido che segna
definitivamente la fine con l’agognata Dorothy.
Altro elemento che ho trovato
interessante è il richiamo a James Joyce: quando Dominic decide di
rubare la betoniera del padre per poter finanziare il viaggio in
California è costretto a passare per il cimitero, proprio di fronte alla
lapide del nonno. A questo punto succede qualcosa: una paralisi, in
puro stile Joyce; così come Eveline, in Gente di Dublino, non
ha il coraggio di affrontare il fantasma della madre, Dominic non ha la
risolutezza necessaria a sostenere gli ammonimenti della coscienza di
fronte alle conseguenze delle sue azioni, cioè passare con la refurtiva
sulla tomba del nonno.
Infine, parliamo della componente
teologica che emerge soprattutto nella prima parte, seppur in modo
soffuso e poco invasivo, del romanzo.
Il contesto in cui cresce il protagonista è un ambiente estremamente
religioso; in casa Molise regna il fervore cattolico e Dominic frequenta
una scuola retta da suore.
Il ragazzo si interroga sulla sua condizione di povertà, fantastica
sulla morte, spesso rivolgendosi direttamente a Dio. Perché Dio ha fatto
nascere Dominic in una famiglia povera, se poi non potrà cambiare le
cose? Perché Dio avrebbe favorito quest’ingiustizia? Dev’essere per
questo che Dio l’ha dotato del Braccio, per far emergere Dominic dalla
sua situazione di miseria. D’altronde anche altri grandi del baseball
sono partiti da famiglie povere.
Predestinazione.
Come se tutto fosse permeato di un ermetismo divino, Dominic è afflitto
dai dubbi, ma è altresì fiducioso sul suo futuro, perché lui ha il
Braccio, e il Braccio gli è stato donato da Dio.
Una mentalità chiusa nel suo involucro religioso che riporta la
situazione di Dominic alla questione sulla teodicea, al passo di Giobbe,
al cercare una spiegazione razionale di fronte ad una condizione di
sofferenza pressoché ingiusta, come la ristrettezza economica del
protagonista.
“Ero figlio di un muratore
disoccupato da cinque mesi. Non avendo un cappotto, mi mettevo tre
golf, e mia madre aveva già cominciato una serie di novene per il
vestito di cui avrei avuto bisogno a giugno per l’esame.
Signore, dissi, perché in quei giorni ero un credente che parlava con
franchezza con il suo Dio: Signore, che sta succedendo? È questo quello
che vuoi? È per questo che mi hai messo sulla terra? Non ho chiesto io di nascere. […]
è questo il premio per chi cerca di essere un buon cristiano, per dodici anni di catechismo e quattro di latino? […]
Stai giocando con me? Ti sono sfuggite le cose di mano?Hai perso il
controllo? Lucifero ha riguadagnato potere? Sii onesto con me, perché
sono sempre preoccupato. Dammi un segno. Vale la pena di vivere? Le cose
si aggiusteranno o no?”
Conclusioni Il finale è un punto interrogativo,
aperto, sospeso sulle possibilità del protagonista di fronte al suo
futuro. Come andrà a finire? Non si sa, ma abbiamo tutti gli elementi
per delineare un possibile finale; sta al proprio gusto e alla propria
chiave interpretativa decidere la direzione da seguire. Io ho la mia.
Oppure possiamo anche lasciare tutto così com’è.
Richard è un bambino di 4 anni, di
colore, nato a Natchez, Mississippi, nei primi anni del Novecento. Il
suo primo scontro con il mondo è dettato dal silenzio; così, quando sua
madre gli intima di star zitto per via della nonna malata, Richard cerca
un modo per dar adito alla sua energia di bambino, dando
accidentalmente fuoco alla casa in cui vive. Un inizio violento che
presagisce una costante della sua vita: la ribellione al silenzio, in
tutte le sue forme.
Scritto nel 1945, Ragazzo negro è il romanzo autobiografico di
Richard Wright, in cui il percorso dall’infanzia alla giovinezza sembra
perennemente scandito dagli echi del silenzio, della fame e della
violenza.
I primi anni di vita di Richard sono
segnati da esperienze drammatiche: giunto a Memphis con la famiglia, il
bambino subirà l’abbandono del padre, patirà la fame nera e disperata,
diventerà un alcolista all’età di sei anni, imparerà le sue prime parole
oscene e finirà in orfanotrofio.
Trovati i soldi per lasciare la desolazione di Memphis, Richard e la sua
famiglia faranno una breve sosta nella casa dei nonni materni a
Jackson, prima di raggiungere una zia nell’Arkansas.
Dopo una prima infanzia vissuta sballottato da un posto all’altro, le
cose sembrano andare un po’ meglio, finché la madre di Richard non viene
colpita da una paralisi e sono così costretti a tornare dai nonni.
La casa di Jackson è dominata da una ferrea disciplina religiosa che
tuttavia non riuscirà mai a conquistare il bambino, ma sarà causa di
forti scontri tra Richard e la nonna.
Dopo anni passati da una casa
all’altra, è solo durante l’adolescenza che Richard potrà frequentare la
scuola in modo assiduo, dimostrandosi un ragazzo capace e pieno di
curiosità. Nel frattempo inizia un’innumerevole serie di lavoretti per
potersi guadagnare qualcosa, e così fa il primo incontro diretto con la
società bianca. Richard non riesce a capire le ingiustizie imposte dai
bianchi e, sebbene ne sia terrorizzato, non riuscirà mai a piegarsi ai
dettami della cultura nera stabilita dai bianchi; il ruolo che i bianchi
hanno scelto per lui e per i suoi simili, un ruolo di sottomissione e
perenne umiliazione, lo allontanerà anche dalla sua gente che, al
contrario di lui, decide di sottostare impotente alla legge dei bianchi.
La vita di Richard è segnata dalla
solitudine: relegato nel mondo dei neri, la sua costante volontà di
ergersi ad essere umano lo rende un emarginato nella sua stessa
comunità, incapace di comprendere le motivazioni che lo sospingono ad
elevarsi come essere a sé. Il mondo nero è fatto di soprusi e carognate,
ma Richard continuerà a ribellarsi.
Alla solitudine si aggiunge il perenne peso del silenzio: zittito dai
bianchi, zittito dagli altri neri, zittito dalla sua stessa famiglia,
Richard non trova mai una risposta dagli altri, se non attraverso le sue
stesse elucubrazioni. Richard è un bambino curioso, affamato di sapere,
ma nessuno sembra voler soddisfare questo suo bisogno. Abbandonato a se
stesso, Richard trova le risposte che cerca nei libri; di qualsiasi
genere essi siano, sono i libri la chiave per scoprire il mondo, in
tutte le sue forme più recondite. Grazie alla lettura, Richard scopre
anche il potere delle parole, un potere enorme, apparentemente
innocente, ma in grado di ferire; un’arma raffinata e tagliente che il
futuro scrittore afroamericano userà per uscire finalmente dal silenzio
che lo ha oppresso per tutta la vita.
Romanzo dai tratti duri, la violenza
che ne emerge è sconcertante. La supremazia bianca regna sovrana e i
neri esercitano su se stessi la repressione voluta dai bianchi;
qualsiasi atto di sicurezza da parte di un nero, manda in crisi la
coscienza bianca, minando la sua legittimazione a tali crudeltà.
Dall’altra parte, i neri accettano mestamente questa condizione,
sentendosi così avallati nel compiere atti a discapito della morale
bianca: se è il bianco che mi dà lavoro ma mi paga una miseria e mi
maltratta, io nero posso allora vendicarmi rubando, truffando l’uomo
bianco. E tutto ciò ai bianchi sta bene, perché è un atteggiamento
rafforzativo al loro razzismo: che rispetto si può avere per i neri se
rubano?
Un circolo vizioso, dunque, che mina costantemente il rapporto tra bianchi e neri.
Richard Wright dice NO a tutto questo,
vuole spezzare questa catena di ricatti e rivendicazioni macchinate
dall’odio razziale, perché vuole sentirsi libero di vivere con la sua
esistenza con la sua morale, con le sue idee e con tutto il suo essere.
L’alternativa per una vita migliore sembra, così, essere il nord, l’utopia del benessere nero.
Conclusioni Ragazzo negro è la storia di
un uomo che ha deciso di essere padrone del suo destino, andando oltre i
limiti del colore della sua pelle, nel bene e nel male. Non solo; è la
testimonianza delle penose e difficili condizioni che gli afroamericani
hanno dovuto affrontare per ottenere il loro posto nel mondo.