Ma
è venuto quel giorno. L’ira si è abbattuta. Il peccato, la colpa e il
castigo? Le psicosi maniacali di quelle entità che definivamo nazioni,
istituzioni, sistemi – i poteri, i regni, le dominazioni – le cose che
si fondono in eterno con l’uomo e che dall’uomo emergono? Il nostro
buio, esteriorizzato e visibile? Comunque si voglia guardare a questi
fatti, è stato raggiunto il punto critico. L’ira si è abbattuta. (…) E
la mano che brandiva quella lama apparteneva a Carleton Lufteufel. Nel
momento in cui affondava la lama nel nostro cuore, quella mano non era
più umana, apparteneva al Deus Irae, al Dio dell’Ira stesso. Quel che
resta sopravvive grazie alla Sua tolleranza. Se deve esistere una
religione, ritengo che questo sia l’unico credo sostenibile.
Carleton Lufteufel, chi è? L’uomo che
ha ucciso miliardi di persone, ponendo fine al mondo così com’era
conosciuto, o la manifestazione terrena del Dio dell’Ira? Carleton
Lufteufel è entrambe le cose, come sostengono i SOW, i Servi dell’Ira
(Servants of Wrath), un gruppo religioso formatosi a seguito degli
eventi che hanno portato alla distruzione del vecchio mondo. Uno dei membri dei Servi dell’Ira è
padre Handy, che ingaggia Tibor McMasters, talentuoso pittore menomato
degli arti, per dipingere un ‘chiesesco’, un affresco, che raffiguri
l’immagine del Deus Irae, Carleton Lufteufel.
Tibor accetta l’incarico, ma per portare a termine la sua opera ha
bisogno di trovare e di vedere con i propri occhi Lufteufel, di cui si è
ormai persa ogni traccia; parte così per un ‘Pelleg’, un pellegrinaggio
alla ricerca dell’uomo che ha distrutto la civiltà e che lo ha ridotto a
doversi servire di protesi estensibili al posto delle braccia, e di un
carretto trainato da una mucca per potersi muovere. Rivali spirituali dei SOW sono i
cristiani, i pochi cristiani sopravvissuti alla Terza Guerra Mondiale,
che non possono vedere di buon occhio l’impresa imboccata da Tibor; il
palesare l’immagine del culto (sebbene per i cristiani non sia possibile
e quindi non veritiera e priva di fondatezza) equivarrebbe ad
accrescere il potere dei SOW, i quali si arricchirebbero di nuovi fedeli
sopraffatti e corroborati nel credo tramite un idolo visibile,
materiale. Così, Pete Sands, novizio della comunità cristiana, decide di
seguire Tibor, sperando di potergli evitare l’incontro con Lufteufel. Il Pelleg intrapreso da Tibor è molto
pericoloso: nessuno che sia partito per un Pelleg ha mai fatto ritorno;
ciò nonostante Tibor è ormai deciso a mantenere il suo impegno.
Dipingerà il Dio dell’Ira.
Durante il suo viaggio, Tibor si ritrova a contatto con un mondo a lui
estraneo; non poche saranno le volte in cui si stupirà dell’abissale
differenza che caratterizza la desolazione dell’ambiente ad appena una
cinquantina di chilometri da Charlotteville, la cittadina in cui vive.
A popolare il suo cammino vi sono poi strane creature, risultato delle
mutazioni dovute al fallout nucleare della guerra: enormi lucertole
antropomorfe, grossi scarafaggi parlanti, vermi famelici dalle
dimensioni titaniche e piccoli esseri irsuti, a metà tra esseri umani e
macropodidi, denominati ‘corridori’. Assieme a questa fauna
geneticamente modificata dalle radiazioni, sopravvivono macchine
computerizzate risalenti all’età prebellica, come il ‘Grande C’ (Grande
Computer), una sorta di sfinge atipica che, mediante estensioni pseudo
robotiche dall’aspetto femmineo, tenta di trascinare gli esseri umani
nel suo baratro mortale, non appena questi gli abbiano rivolto le
domande a cui il Grande C deve saper rispondere. Altra macchina
potenzialmente pericolosa è ‘l’autofab’, una sorta di autofficina
autonoma e psicologicamente instabile, alla quale Tibor è costretto a
chiedere aiuto.
Un mondo popolato da mostri, mutanti,
automi psicotici e assassini, ma pochi esseri umani, per lo più
raggruppati in piccole comunità arrangiate in insediamenti
semidistrutti, post-bellici.
Questo è il mondo futuro alla Terza Guerra Mondiale del duo
Dick-Zelazny; un pianeta desolato, arido e ostile, un mondo popolato da
strane creature, come un futuribile Paese delle Meraviglie, ma meno
fantastico e più grottesco.
Il Deus Irae
Non lo fare più, per favore. Non avevo capito che fossi la cosa che sei.
« Lo rifaccio eccome, cazzo, se ci provi un’altra volta. » Non ci riproverò. Ti offrirò dei ratti da mangiare. Di quelli giovani, grassi. Solo, liberaci dalla Tua ira.
Carleton Lufteufel, il demone dell’aria ( dal tedesco, ‘Luft’ aria e ‘Teufel’ demone ). Il solo nome è evocativo.
Direttore dell’ ERDA ( acronimo inglese che sta per “Ente per lo
sviluppo e la ricerca dell’energia” ) ai tempi dell’avvento del
conflitto, Lufteufel è il diretto responsabile dello sterminio di massa
che ha posto fine alla guerra, il “Creatore”, se così vogliamo
chiamarlo, di un mondo civilmente
primordiale. Carleton Lufteufel è un uomo in carne ed ossa, ma nello
stesso momento in cui ha premuto il tasto dello ‘sputo’ ( l’arma
micidiale che ha corrotto ogni cosa ) si è tramutato nel Dio dell’Ira.
E ai pochi superstiti cosa rimane se non il culto in tale dio? Come
spiegare altrimenti l’abominio del dolore, della distruzione e della
morte che li ha contagiati? La possibilità non può essere che una:
esiste un Dio, e questo Dio è malvagio.
Una teodicea ribaltata, annientata nel fallimento di trovare una
spiegazione razionale alla compresenza del male e di un Dio
caritatevole.
È il Dio dell’Ira che governa questo mondo, e la morte non rappresenta
più un ricongiungimento col divino, ma una liberazione da esso.
Carleton Lufteufel è un uomo in carne ed ossa, ribadiamolo; come tale è soggetto al dolore, al deterioramento fisico e morale:
come un Cristo trasversale, Lufteufel ha la sua corona di spine
conficcata nella testa – resti metallici delle esplosioni -, e la
camicia, impregnata del suo sangue ripulito da Alice – una Maria
Maddalena ritardata? – , come una santa sindone, ritrae il suo volto
impresso nella tela.
A rimarcare l’essenza divina di
Lufteufel vi sono i due passaggi in cui l’entità mistica del Dio
dell’Ira si manifesta in mondo inequivocabile: la comparsa del dio di
fronte a Tibor e la sua ultima apparizione ad Alice.
« Prega! » pretese la faccia. « In ginocchio e con le mani a terra! » « Ma » disse Tibor « io non ho mani e ginocchia! » « Questo lo stabilisco io » disse la facciona accesa. Tibor si sentì
sollevare di colpo, poi sbatté duramente giù sul prato accanto al
carretto. Gambe. Era inginocchiato.
Quando Tibor si ritrova bloccato per
via della perdita di una ruota del suo carretto, un disco, i cui tratti
facciali vanno formandosi lentamente, si palesa essere un’apparizione di
Lufteufel, il quale prima dona gli arti a Tibor, e subito dopo se li
riprende, manifestazione rivelante di potenza e sadismo.
Il suo incontro con Alice è invece
molto più dolce e serafico. Alice è la ragazza mentalmente ritardata che
Lufteufel ha preso con sé. La perdita di Lufteufel equivale per Alice
alla perdita del padre, identificato dalla ragazza come tale.
Alice, essere umano subnormale, sarà l’unica a vedere la verità oltre il
suo deficit; l’unica in grado di assistere alla teofania del Dio
dell’Ira, miracolosamente rappacificato con se stesso e con il mondo.
La pace del Dio dell’Ira sta proprio nella sconfitta. La colpa che
pesava sullo spirito di Lufteufel per le sue azioni, viene estirpata
attraverso la sua morte.
I temi di Dick: la verità oltre la verità. L’intero romanzo è una continua
disputa teologica su quale sia il percorso “giusto” da seguire.
Sostanzialmente, il romanzo ripercorre in chiave mistico-religioso la
questione teoretica della verità, tema assai caro a Dick.
Come si sentirebbe il mondo senza di lui…di questi tempi sono davvero poche le cose cui aggrapparsi.
Preposta l’esigenza di una divinità in
cui credere in un mondo post-apocalittico abbandonato a se stesso – non
veniamo a conoscenza di strutture organico-normative -, il dilemma
principale diventa quindi quale sia la divinità in questione cui
affidarsi. Continuare imperterriti nella speranza di un dio buono e
misericordioso, il Dio cristiano, oppure avallare il rapporto di
causa-effetto, secondo il quale, a seguito di tale catastrofe, l’unico
dio possibile è un dio dell’ira?
Una volta deciso quale via intraprendere, diventa necessario avvalorare tale scelta con delle prove.
L’ossessione per la verità che tormenta lo scrittore, è la stessa
ossessione che spinge Pete Sands all’uso indiscriminato di droghe per
arrivare a raggiungere la gnosi; così come per i SOW, l’unico modo per
conoscere la sostanza e l’essenza del Dio dell’Ira è quello di ritrarlo. La risoluzione finale ha un che di
tragicomico. Morto Lufteufel, Pete convince Tibor che il barbone
avvinazzato trovato in una stalla è il Dio dell’Ira; Tibor, finalmente
giunto al termine del suo Pelleg, è pronto a tornare a casa per
completare il suo chiesesco.
A diciassette anni
dalla morte di Tibor, la gerarchia dei Servi dell’Ira promulgò una
dichiarazione solenne di autenticità. Si trattava incontrovertibilmente
del volto del Dio dell’Ira, Carleton Lufteufel. Non c’erano dubbi. (…)
Questo allo scopo di garantire il rispetto dove mancava, la fede in una
società sempre meno religiosa e il credo in un mondo già consapevole del
fatto che la maggior parte delle cose in cui credeva si erano rivelate
delle menzogne.
In definitiva, Dick afferma ancora una
volta che non è possibile conoscere la verità ultima delle cose, ma ciò
nonostante è necessario continuare verso il suo perseguimento, evitando
di credere ciecamente a ciò che si vede.
Conclusioni Dopo una prima parte traballante, in
cui ho sinceramente pensato che gli autori si fossero fatti di acido, si
arriva ad una comprensione più tangibile dell’idea che sta alla base
del romanzo. Si capisce dove vogliono andare a parare, insomma. Fino
alla seconda metà, in cui inizia la parte veramente intrigante della
storia.
Che dire poi dell’accoppiata a quattro mani Dick-Zelazny? Sarò onesta:
non mi ha convinta del tutto. Lo stile pare disorganizzato (soprattutto
all’inizio, appunto), le descrizioni sono sommarie e i periodi
estremamente brevi, segmentati. Questo, assieme ad un uso spropositato
del tedesco, hanno reso l’opera disarmonica, proprio in virtù
(ribadiamolo) delle differenze tra la prima e la seconda metà del libro.
D’altronde c’è da dire che una dozzina d’anni di collaborazione
discontinua tra i due scrittori deve aver reso la stesura della storia
non poco complicata.
Comunque. Deus Irae è un romanzo particolare, strano, per certi versi assurdo, ma con delle potenzialità innegabili.
Il mio primo incontro con Herman
Melville si è concluso. Non avevo mai letto niente di questo autore ed
ignoravo completamente in cosa mi sarei imbattuta. Per mia fortuna ho
cominciato la scoperta dello scrittore con dei racconti e non con un
intero romanzo. Perché dico così? Beh, perché Melville non è
assolutamente una lettura semplice, almeno per me.
Posso capire perché lo scrittore americano finì nel dimenticatoio
all’epoca delle sue opere: i tempi non erano maturi. Gli scritti di
Melville sono oscuri, astrusi, sibillini; lo stile e le tematiche
precorrono i tempi: Herman Melville è il pioniere dell’ermetismo e della
letteratura dell’assurdo.
È abbastanza chiaro, quindi, come una narrativa del genere non possa
essere stata apprezzata dai contemporanei dell’autore, quando il genere
letterario in vigore era per lo più il romanzo naturalista.
Ciò nonostante, l’opera di Melville è sopravvissuta e giunta sino a noi;
un’opera ostica ed enigmatica, ma permeata di una potenza simbolica
indiscutibile.
Bartleby lo scrivano, una storia di Wall Street La storia di Bartleby ci viene
raccontata dal suo datore di lavoro, titolare di uno studio legale nella
sempre più emergente Wall Street. Alle prese con un lavoro sempre
maggiore, il narratore decide di assumere al suo servizio un altro
scrivano e fa qui, dunque, la sua comparsa Bartleby.
Bartleby è un uomo taciturno, pallido, dimesso e sobrio; nel suo
cantuccio solitario, Bartleby è uno scrivano provetto, copiando
incessantemente documento dopo documento. Nemmeno una pausa per il
silenzioso eremita, cosa che rende il narratore colpito e perplesso.
Bartleby si presenta dunque come un lavoratore alacre e instancabile, ma
alle prime richieste che non riguardino esclusivamente la copiatura,
come ad esempio l’uscire per svolgere commissioni, Bartleby si sottrae
semplicemente con un “preferirei di no”. Il titolare resta basito dal
rifiuto dello scrivano nell’eseguire i suoi compiti, ma come disarmato
dal candore della risposta, finisce con il lasciar cadere la questione.
Inutilmente il narratore rinnova le sue richieste, ottenendo in cambio
sempre la solita risposta: preferirei di no. Assieme ad un giustificato
dispetto, cresce nel magistrato il desiderio di conoscere meglio la
strana figura che ha assunto nel suo ufficio; Bartleby è chiuso nel suo
guscio, imperscrutabile, a dir poco emblematico. Ma chi è Bartleby? Da
dove viene? Qual è la causa dei suoi perentori, quanto pacati, rifiuti?
Ad accrescere il disagio del narratore è poi l’improvvisa interruzione
del lavoro di Bartleby come copista; di punto in bianco, lo scrivano
pretende di non voler più scrivere, o meglio, preferirebbe non
farlo più, lasciando il suo padrone nell’impotenza di fronte alla sua
perentoria decisione. Bartleby passa ora le sue giornate fissando fuori
della finestrella dello studio, che dà su un muro. A niente valgono le
proteste, le suppliche, gli inviti accorati del legale di fronte alla
caparbia ostinazione dello scrivano. Bartleby vive nel suo mondo, un
mondo astratto e inaccessibile, un mondo sbarrato dalla continua
presenza di quel muro fuori dalla finestra.
Il narratore, ora impietosito, ora esasperato dal comportamento del suo
subalterno, decide di licenziare, sebbene a malincuore, lo strano
individuo, ma inutilmente; Bartleby non intende andarsene, preferirebbe non andarsene, e non se ne va.
Non sapendo più come doversi comportare, il legale finisce con il
trasferirsi in un altro palazzo, lasciando Bartleby al suo destino. A
distanza di poco tempo, però, il narratore viene a conoscenza delle
proteste degli inquilini del suo vecchio stabile, indispettiti dalla
presenza continua e spettrale dell’ex scrivano. Bartleby finisce così
col venire arrestato.
A questo punto il narratore, dispiaciuto per la fine di Bartleby, va a
trovarlo in prigione per assicurarsi che stia bene; la figura di spalle,
di fronte a un muro, testimonia che niente è cambiato in Bartleby.
L’uomo continua il suo compito di sognatore, di figura astratta ed
ascetica, di sovvertitore silenzioso, fino all’inevitabile fine.
La critica è molto dibattuta riguardo
l’interpretazione del racconto; Bartleby è chiaramente una figura
simbolica dai tratti evangelici: un moderno Gesù Cristo capace di vedere
oltre, inaccessibile ai comuni mortali? Forse. Sicuramente è un aspetto
da tenere di conto.
Ma la teoria che tendo ad accreditare di più è una sorta di critica
intrinseca alla società moderna; sempre più caotica, sempre più veloce,
moderna, inafferrabile, la società di Melville, di cui Wall Street ne è
l’astro nascente, è una società basata sul capitale e sulle leggi
burocratiche. Non più uomini, ma notai ed avvocati. Non più valori umani
ma capitali, azioni, denaro.
Bartleby è il simbolo del passato che tenta di dire no al futuro
incalzante. Ma un muro si oppone sempre di fronte alla sua figura; la
strada è sbarrata in senso contrario, si può solo andare avanti,
altrimenti si finisce con il restare a fissare solo un muro.
Ma il muro potrebbe anche indicare quell’effettiva barriera che divide il genere umano.
“Ah Bartleby! Ah, umanità!”
Un muro fra me e gli altri, una
costante instabilità che finisce col minare le convinzioni altrui ( i
continui ripensamenti e le crisi di coscienza del narratore, l’invasione
del verbo preferire all’interno dell’ufficio, che “contamina” anche gli altri assistenti del legale).
E altri racconti americani Gli altri racconti che compongono la raccolta non sono meno ermetici del precedente.
In Chicchirichì, ovvero il canto del nobile gallo Beneventano,
un uomo appesantito dai comuni problemi materiali (problemi pecuniari),
rinasce grazie al portentoso canto di un gallo, appartenente ad un
pover’uomo che si rifiuta di vendere il bene più prezioso che ha: il
canto del suo fedele gallo.
Ne I due templi, Melville
contrappone l’ostentata purezza della Chiesa al mondo più pagano del
Teatro. L’apparenza sacrale e caritatevole della Chiesa, viene
smascherata dall’effimero ambiente mondano che, paradossalmente, risulta
più di sostanza e genuino del primo.
Ne Il paradiso degli scapoli e il tartaro delle fanciulle
assistiamo a due scenari totalmente contrapposti: il mondo spensierato e
benestante degli avvocati, uomini scapoli e della buona società, a
quello infinitamente più triste e freddo di una cartiera, dove donne dal
colorito niveo, ripetono incessantemente il loro lavoro meccanico,
paragonate a Cristo per il loro sacrificio a discapito della loro virtù.
Jimmy Rose, protagonista del racconto
omonimo, è un uomo enormemente ricco e generoso che finisce col perdere
tutte le sue sostanze e vivere di un’indifferente, quanto
supponentemente tollerata, carità da coloro che gli erano amici ai tempi
delle sue ricchezze.
Jimmy Rose è la nemesi di Bartleby, in quanto accetta suo malgrado quel compromesso che lo scrivano rifiuterà fino alla morte.
Io e il mio camino è un
racconto dal tono più spensierato; narra della smodata ammirazione di un
uomo per il suo camino, che combatte in tutti i modi la sua famiglia,
che invece vorrebbe sbarazzarsene.
Conclusioni Decisamente quella di Herman Melville
non è una letteratura banale ed agevole; tra i riferimenti biblici ed
evangelici, le critiche velate ed i numerosi simbolismi, l’opera dello
scrittore americano presenta non poche difficoltà nella sua
interpretazione, oltre che nella sua lettura.
Consiglio: iniziate, come me, da racconti o romanzi minori prima di imbattervi nel ben più voluminoso capolavoro che è Moby Dick. Almeno per il primo incontro. Poi fate voi.
Giudizi contrastanti quelli che accompagnano il più o meno famoso Dio di illusioni, romanzo d’esordio di Donna Tartt.
Da quale parte della barricata schierarsi? A questo punto credo che sia veramente una questione di gusto personale.
Dal canto mio, non posso che considerarlo un libro molto, molto, sopravvalutato.
Siamo
in un esclusivo college del Vermont; Henry, Bunny, Francis, Charles e
Camilla rappresentano tutto ciò che Richard Papen, squattrinato
californiano, vorrebbe essere: bello, ricco, affascinante. L’unico modo
per entrare a far parte di quel gruppo è seguire le lezioni di greco, e
Richard lo fa. Pian piano viene accolto nella cerchia e il ragazzo si
sente al settimo cielo, finché qualcosa comincia a minacciare
l’idilliaco equilibrio del gruppo. Bunny sa un segreto che riguarda
Henry, Francis e i gemelli, ma che Richard non conosce. L’armonia
traballa sempre di più, fino a spezzarsi, quando Richard scopre il
segreto della discordia. I quattro ragazzi sono responsabili di un
brutale omicidio, avvenuto erroneamente durante il baccanale segreto da
loro organizzato. Bunny diventa quindi una minaccia, e una sembra essere
l’unica soluzione possibile.
_E da qui in poi consiglio la lettura solo a chi ha letto il libro, fino alle conclusioni, come al solito.
Considerazioni su Dio di illusioni: la trama, lo stile, i personaggi. Quattro (cinque) ragazzi coinvolti in
un orribile segreto, un omicidio involontario, e qualcuno che sa. Vi
ricorda qualcosa? A me sì; per esempio il film So cosa hai fatto, tratto dall’omonimo romanzo di Lois Duncan, scritto nel 1973. Che l’autrice de Il Cardellino
abbia preso ispirazione dal sopracitato libro? Le modalità sono
diverse, certo, ma subito è riaffiorato in me il ricordo, la sensazione
di una trama già vista, già sentita.
Ma tralasciando le fonti d’ispirazione, ci sono molti elementi che rendono Dio di illusioni un romanzo mal riuscito.
Innanzitutto lo stile.
Secondo i miei canoni (ed i miei gusti personali, ovviamente) ritengo
che la Tartt, per lo meno da quanto ho appurato in questo suo primo
romanzo, non sappia scrivere: lo stile è prolisso e poco fluido, molto
artificioso e poco coinvolgente. Innumerevoli sono i fatti e le
descrizioni altamente inutili che compongono questo romanzo,
contribuendo a renderlo molto più lungo di quanto in realtà sarebbe
stato necessario; seicento pagine che sarebbero potute benissimo essere
sintetizzate nella metà, se nelle mani di uno scrittore capace.
I personaggi sono troppo fittizi,
piatti e scialbi, nonostante l’autrice tenti in tutti i modi di renderli
interessanti, stravaganti, “diversi” insomma. Ma manca quella bravura
di fondo atta a rendere i protagonisti dei personaggi a 360°, con una
loro psicologia a tutto tondo. Chi sono infatti i protagonisti di Dio di illusioni?
Richard, colui che
funge anche da narratore in prima persona, paradossalmente è il più
insignificante del gruppo. Nonostante sia lui a raccontare la storia, _e
avendo quindi la funzione importantissima di coinvolgere maggiormente
il lettore proprio perché influenzato dal suo punto di vista_ , tutto
ciò che pensa e prova risulta come condensato da un soffuso strato di
ovatta, a causa del quale ogni suo pensiero o sentimento appare privo di
un’autentica emozionalità, rendendo il lettore incapace di partecipare
attivamente al suo stato emotivo.
Vi sono poi gli elitari, coloro che ci
vengono presentati dal narratore come una sorta di angeli, essere
trascendentali, se non addirittura degli dei, che altro non sono che dei
ragazzi ricchi, viziati e supponenti, chiusi nella loro cerchia
ristretta e inaccessibile per chiunque non ne faccia parte. Non
partecipano alla comune vita del college, non vanno alle feste
studentesche e non scambiano parola con chicchessia; il loro tempo
libero lo passano riuniti a bere e a fumare sigarette, giocare a carte,
leggere libri tra una sbronza e l’altra.
Merito di questo snobbismo classista è sicuramente Julian,
professore di greco che, tronfio della sua superbia, ha voluto
frapporre un muro tra sé e i suoi adepti con il resto del mondo, troppo
mediocre e misero per la sua persona, dedita alla magnificenza del mondo
classico.
Adorato e venerato dai suoi allievi, Julian è un uomo votato
esclusivamente alla bellezza, una bellezza particolare però, puramente
estetica, priva di contenuto: in definitiva, una bellezza sterile.
Ma più che la persona in sé, Julian mi ha disgustato nella sua figura di
professore: un maestro delle apparenze senza alcuno scrupolo morale
nell’isolare coercitivamente i suoi studenti (fatto allarmante di per
sé) e nell’instillare il culto del Dionisismo in giovani menti
influenzabili.
Il “mandante” dell’omicidio infatti non è altri che Julian, desideroso
di trasfondere nei suoi accoliti i suoi stessi ideali edonistici,
travisando in realtà gli ideali della cultura greca; perché assieme al
dionisiaco, esiste l’apollineo.
Henry, pedante
classicista, dall’aspetto austero e sostenuto, erudito e fin troppo
perfetto, è la mente malata che raccoglie il dado lanciato da Julian. È
lui che propone l’idea del baccanale, è lui che decide di eliminare
Bunny, è lui che muove gli altri come delle pedine. E proprio perché è
lui il personaggio di maggiore spessore, è lui che farà una fine tragica, epica, classica.
Il rifiuto del suo mentore, l’onta causata dal suo abbandono,
determinano in Henry il bisogno di un riscatto che dovrà ottenere col
sacrificio. Il suo.
Charles e Camilla, la
coppia di gemelli, segretamente amanti (sì, perché senza una relazione
incestuosa sarebbero stati troppo banali, no?), sempre inseparabili,
sempre a bere o a fumare. Camilla, ovviamente, essendo l’unica ragazza del gruppo è anche colei che viene contesa da tutti, fratello compreso appunto.
Charles, che all’inizio sembrava perlomeno un personaggio rispettabile,
viene trasformato, con l’avanzare della storia, in un alcolizzato
incallito e violento, così, di punto in bianco, giusto perché la Tartt
non sapeva che altro inventarsi.
Francis,
l’omosessuale del gruppo, è forse l’unico personaggio che si salva, che
ha una coscienza, seppur latente e per lo più ottenebrata dal suo amore
per Charles.
Alla fine, però, nessuno di questi
personaggi sviluppa una personalità talmente propria da renderlo unico e
indimenticabile. Manca quell’individualità che renda reale il
personaggio. Sono tutti uguali, semplicemente con delle differenze.
Bunny, altro elemento
del gruppo, appare odioso già prima del ricatto: ragazzo eccessivamente
esuberante, egoista e, a mio modesto parere, veramente stupido, è colui
che più degli altri vive di apparenza; appartenente a una famiglia un
tempo altolocata, Bunny non pare preoccuparsi dell’attuale situazione
economica della famiglia perché, grazie ad escamotage e alle sue
amicizie benestanti, riesce comunque a mantenere un alto tenore di vita.
Un ragazzo finto, superficiale, interiormente vuoto che finisce col
rendersi ulteriormente odioso quando comincia a ricattare (e neanche
esplicitamente) gli altri ragazzi.
Persino il suo crollo emotivo ha un che di fastidioso, semplicemente
perché del tutto irrazionale; lui, che è del tutto estraneo
all’omicidio, sta male, quando ai diretti interessati non fa minimamente
né caldo né freddo. Bunny inizia a interrogarsi sul senso della morale,
sul concetto di colpa e di peccato, sembrando quindi l’unico essere
dotato di coscienza in tutta la storia. Ma allo stesso tempo sfrutta il
segreto dei ragazzi per soddisfare ogni suo singolo capriccio. Dunque,
di che moralità stiamo parlando? Uccidere è immorale, ma ricattare sulla
base di tale uccisione no? Un concetto di etica alquanto distorto a
parer mio.
Inoltre comincia a diffidare di chiunque, a soffrire di paranoia…beh,
diciamo che se ti metti a ricattare la gente un po’ te lo devi anche
aspettare che poi ti vogliano fare la pelle eh.
Dunque, a costo di sembrare io l’immorale, sono stata contenta che un
personaggio vile, e alla fin fine abbietto, come Bunny venisse eliminato
dalla storia.
Ma adesso arriviamo alla parte più
“divertente” e soprattutto “verosimile” della storia. Sparisce Bunny e
dopo tre giorni vengono iniziate le ricerche dalla polizia, da
innumerevoli volontari, da squadre speciali con tanto di elicottero e
infine dall’ FBI. La SWAT e l’esercito no??
Via, quando mai per un ragazzo di 24 anni qualsiasi si mobilita tutta
questa gente? Poi la Tartt, rendendosi conto della puttanata (pardon)
che ha scritto, aggiunge la storia della ricompensa e della droga per
cercare di rimediare a cotanta assurdità.
Ebrietas nihil aliud est quam voluntaria insania. Nient’altro è l’ebbrezza che la volontaria pazzia. Il perno centrale del romanzo è il male. O meglio, la bellezza del male.
Julian afferma che la bellezza è terrore, frase sulla quale non mi ritrovo affatto d’accordo; la bellezza è anche terrore. C’è differenza.
Fin dai tempi più antichi, il male fa
parte dell’uomo e come tale affascina. Ma qui il male viene impostato su
due differenti piani: il male come accezione moderna, dal punto di
vista della colpa, e quindi della morale, e il male come conseguenza ed
espressione della libertà più totale, slegata dai vincoli morali che la
imprigionano.
I baccanali greci in onore di Dioniso non erano concepiti come culto del
male, ma come libera espressione degli istinti più selvaggi, della
forza vitale, della completa liberazione dello spirito scevro dalla
coscienza, e di conseguenza come simbolo di ricongiungimento col dio, il
“dio di illusioni” a cui si rifà il titolo, che è appunto Dioniso, un
dio dal duplice aspetto; da un lato egli è dio dell’estasi,
dell’ebbrezza e del vino, dall’altro è anche il dio della metamorfosi,
terrorizzante e irrazionale.
Per Henry, soprattutto, il desiderio
di andare oltre i confini della razionalità e della coscienza diventa
un’ossessione morbosa.
Ma nient’altro è l’ebbrezza che la volontaria pazzia. Il
decidere consapevolmente di svestirsi delle proprie inibizioni morali è
un atto di deliberata depravazione. Ciò che Henry vorrebbe, ovvero
raggiungere lo stato di amoralità, è impossibile perché nella cultura in
cui vive la moralità e l’immoralità sono concetti ormai legati
indissolubilmente a lui. Quindi il decidere di andare contro la morale,
seppur in una forma di amoralità, è già un atto di per sé immorale.
Henry stesso ammetterà, in seguito, che l’aver ucciso l’uomo nel bosco è stata l’esperienza più vivificante della sua vita.
Quindi, ripeto, nient’altro è l’ebbrezza che la volontaria pazzia.
Per quanto riguarda il male inteso come colpa, come peccato, la Tartt non riesce a svilupparne bene il concetto, né l’intensità.
Bunny, ripetiamolo, si interroga sul senso di colpa e peccato, mostrando però un atteggiamento immorale ricattando i ragazzi.
Dopo l’uccisione a sangue freddo dell’amico, Richard dichiara sempre di
fare sogni orribili, di avere fitte di malessere e paura, ma non sembra
sentirsi realmente in colpa, e così gli altri ragazzi.
La premessa del baccanale è del tutto inutile in quanto questi personaggi già non hanno una coscienza.
Conclusioni Sarà il fatto che nutrivo grandi aspettative per questo romanzo se ora non posso fare a meno di sentirmi delusa. Molto delusa.
La trama intrigava, parecchio. Ma lo stile lento, prolisso, l’incapacità
di compartecipare emotivamente con i protagonisti, le ripetizioni, le
forzature in generale, hanno distrutto quello che poteva essere un gran
bel romanzo.
È evidente lo sforzo della Tartt nel voler riuscire a stupire,
sconvolgere il lettore, così come è visibile la sua conoscenza della
lingua e della letteratura greco-latina, visti i grecismi e i continui
richiami classici di cui è permeato il libro, ma nonostante ciò per me
non riesce. La scrittrice non è riuscita nel trasmettere il significato
profondo del suo pensiero, non è riuscita a svilupparlo concretamente,
ecco.
Per finire, una piccola parentesi sul genere di questo romanzo, dato che c’è chi si trova in difficoltà nel doverlo catalogare.
Non è un giallo in quanto non è strutturato come un giallo (mancano
l’investigatore, gli indizi, la deduzione tipica del giallo classico);
non è un thriller, manca l’azione (questo libro è molto, molto lento);
non è un romanzo di formazione, semplicemente perché qui nessuno cresce,
i protagonisti vanno avanti nelle loro vite senza mostrare particolari
cambiamenti o maturazioni; non è interamente un noir, in quanto la
suspense è poco palpabile.
In definitiva: si tratta meramente di narrativa con tinte di mistery/noir.