lunedì 19 gennaio 2015

Il cielo è dei violenti #Lunedì narrativa

La bruttura, la brutalità, l’orrore, la violenza. Il cielo è dei violenti è tutto questo.
Non esiste via d’uscita, non esiste possibilità di scelta. Il destino che Flannery O’Connor riserva al giovane Tarwater è irrevocabile e perentorio. Tu sei. Nient’altro.


Il cielo. Fondamentalismo.
Tarwater non è mai vissuto altrove della sperduta radura di Powderhead assieme al suo prozio, il profeta. O meglio, una volta sì, quand’era ancora un infante e giaceva nella culla nella casa dell’altro suo zio, il maestro; prima che il profeta lo rapisse e lo iniziasse a nuova vita. Ma Tarwater era talmente piccolo che non lo può ricordare.
Per quattordici anni ha vissuto col prozio, isolato dal resto del mondo, educato sotto la rigida guida cristiana che il profeta ha voluto impartirgli. Perché un giorno toccherà a lui prendere il posto del profeta e vivere nella fame del pane di Gesù.

Il vecchio, che diceva di essere un profeta, aveva cresciuto il ragazzo insegnandogli ad aspettare a sua volta la chiamata del Signore, e a tenersi pronto per il giorno in cui l’avrebbe udita. L’aveva istruito sui mali che toccano a un profeta, quelli che vengono dal mondo, e sono trascurabili, e quelli che vengono dal Signore e lo purificano ardendolo, perché lui stesso era stato purificato ardendo più e più volte. Lui, aveva imparato attraverso il fuoco“.
Così, quando quella mattina, a colazione, il vecchio Tarwater non si alza più, il giovane discepolo sa esattamente quello che deve fare. Scavare una fossa per il vecchio zio, dargli una sepoltura cristiana, e prendere il suo posto. Oppure no?
Il prozio è morto e “ai morti non dobbiamo niente“. Nonostante i suoi unici insegnamenti, il ragazzo sa che l’uomo era folle, inoltre lui non ha mai sentito la voce di Dio ad indicargli la strada, com’era successo invece per il vecchio. L’insegnamento coatto e ripetitivo subito da Tarwater atterrisce il ragazzo di fronte all’aspettativa di prendere le orme del morto. Così, un’immaginaria voce, frutto della sua parte razionale o del diavolo, comincia a pressare il ragazzo, con un unico monito: andare contro il prozio, a tutti i costi. Non si tratta di una semplice ribellione adolescenziale. Lui non vuole seguire la strada del profeta. Lui vuole solo essere libero, l’unico padrone di se stesso. Ma non basta la volontà.

Non si può semplicemente dire di NO. Bisogna fare di NO. Bisogna dimostrarle le cose. Bisogna dimostrare che si fa sul serio. Bisogna dimostrare che una cosa non si fa facendone un’altra. Bisogna giungere a una decisione. In un modo o nell’altro.
E il primo atto di libertà di Tarwater è quello di bruciare empiamente il prozio e la sua casa.

La terra. Razionalità.
Tarwater raggiunge l’unico parente consanguineo rimastogli, lo zio Rayber, il maestro. Quest’ultimo, che a sua volta da bambino venne rapito dal profeta, sebbene per soli tre giorni, decide di aiutare il nipote nel riscattare la sua dignità di essere umano pensante.
Anche Rayber ha subito lo choc di un’educazione distorta, e ha dovuto lavorare su se stesso per tutta la vita, per porvi rimedio.
La presenza di Tarwater risveglia in lui un desiderio di riscatto e speranza che si trasforma in una vera e propria missione: salvare il ragazzo, fare di lui il figlio che non ha avuto possibilità di educare. Ma tutto ciò che ottiene dal nipote è una strenua resistenza alla sua logica e alla sua razionalità, sue uniche armi di difesa contro la follia del vecchio.
A complicare le cose c’è Bishop, figlio mentalmente disabile di Rayber; il bambino non parla ma la sua presenza è ben tangibile nella coscienza di Tarwater. Come in una sorta di trance, Tarwater si ritrova ipnotizzato nello sguardo del cuginetto che è una costante provocazione; gli occhi vuoti del bimbo ricordano al ragazzo quelli del prozio e, insieme ad essi, la sua ultima disposizione: battezzare il cugino. Ma Tarwater sa che nel momento stesso in cui cederà a questo impulso, il suo destino sarà segnato, ineluttabile.
All’interno della sua mente, il ragazzo si ritrova coinvolto in un’estenuante lotta contro se stesso: da una parte l’imperiosa ossessione di battezzare Bishop, dall’altra il disperato bisogno di essere libero.
Di nuovo un bivio, una scelta: “Non si può semplicemente dire di NO. Bisogna fare di NO.
E Tarwater lo fa, questo NO.


La violenza è il nuovo amore.
[_Spoiler Allert_] Non c’è amore né gioia nell’universo creato dalla O’Connery, perché l’amore non è di questo mondo.
La natura è nemica e indifferente _”Il sole, già un gomitolo di luce malevola“_, così come la città è un luogo incolore e distaccato:

“Parecchi lo urtarono, e il contatto, che avrebbe dovuto far nascere una conoscenza da durare tutta una vita, non significava nulla […]
Poi si era reso conto, quasi senza preavviso, che quello era un luogo malvagio: e malvagie erano le teste chine, le parole borbottate, la premura d’allontanarsi.”
L’unico essere in grado di amare risulta essere Bishop, nonostante, o forse proprio in virtù, della sua deficienza. Ma quest’amore viene impietosamente sconfitto, perché il cielo, così come la terra, è dei violenti.

Questa violenza, però, non è vista in senso negativo dall’autrice, in quanto rappresenta una componente indissolubile dell’uomo e la chiave per raggiungere la vera essenza della fede; una passione brutale e drastica, ma che, se incanalata verso Dio, risulta salvifica.
Rayber, al contrario, sopprime costantemente tutto ciò che è passionale in virtù di una strada più equilibrata e razionale, ma il risultato che ne deriva è la sua totale sconfitta, evidente quando, a seguito della morte di Bishop, l’uomo realizza di non provare niente per il figlio e collassa.

Restò in attesa del dolore rabbioso, della sofferenza intollerabile che gli spettava per poterla ignorare, ma continuò a non sentire nulla. Rimase alla finestra con un po’ di capogiro, e solo quando si rese conto che non vi sarebbe stato alcun dolore, crollò.”
A sancire questa supremazia della violenza vi è una misteriosa armonia degli opposti in cui tutto ciò che distrugge allo stesso tempo crea: l’annegamento di Bishop, ultimo atto profano che resta a Tarwater, quasi libera il ragazzo dal suo destino, ma il battesimo simultaneo lo redime. Lo stesso atto violento del sacrificio umano racchiude in sé un atto di purificazione.
L’acqua annega e battezza; il fuoco distrugge Powderhead e purifica gli occhi di Tarwater.
L’acqua e il fuoco, due elementi apparentemente contrastanti, sono in realtà equivalenti, così come il binomio creazione/distruzione: tutto ciò che distrugge, redime.


Conclusioni
Crudele, cupa, spietata, Flanney O’Connor non trova pietà per i protagonisti della sua storia; quando credi che sia finita, eccola là con un’ulteriore brutalità che pensavi non necessaria.

Il cielo è dei violenti è un romanzo intenso, fosco, prepotente, accompagnato da uno stile magistrale, una penna abile e di poderoso talento, ricco di descrizioni simboliche, quasi visionarie.
Lo scontro tra il divino e il razionale, tra il sensato e l’assurdo, tra l’acqua e il fuoco, gioca da ruolo centrale per l’intera vicenda.


Quello che potrebbe passare per un semplice romanzo contro le brutture della fede, un testo anti-religioso, è in realtà qualcosa di più, di estremamente complicato e controverso: è un’apologia della violenza come amore per il divino. È il riscatto della passione religiosa contro un ateismo forzato ed il mero fanatismo, privo di significato; perché, se sei offuscato dall’estremismo, ti ritrovi a vagare come un povero matto, come il vecchio Tarwater, ma se sei privo di emozioni, sei privo di tutto, sei vuoto, come Rayber. Il potere della religione è strettamente legato alla passione.
È ovviamente discutibile la presa di posizione da fervente cattolica qual era Flannery O’Connor, in quanto io sono atea e vivo da Dio (scusate il gioco di parole), e non penso proprio di essere vuota e senza sentimenti.


Altra nota stonata sta nella perspicacia di Tarwater che risulta alquanto inverosimile, pur nel contesto di una vicenda esasperatamente improbabile come questa; come fa Tarwater, cresciuto esclusivamente alla mercé del prozio, a realizzare che si tratta di un folle? Tarwater non ha avuto altri stimoli, altri contatti umani al di fuori del profeta, dunque mi chiedo come sia possibile che un ragazzo che non conosce neanche il telefono _”Meeks scompose la macchinetta in due parti e ne tenne una contro la testa mentre faceva girare un dito sull’altra parte.”_ possa giudicare tanto lucidamente la pazzia del suo precettore.
Questa l’unica critica che posso muovere all’autrice.


Comunque, una cosa è certa: non vedo l’ora di leggere i suoi racconti. 

Voto: ★★★★
 

FlanneryOConnor

lunedì 12 gennaio 2015

Neve #Lunedì narrativa

Orhan Pamuk, scrittore turco, premio Nobel per la letteratura, anno 2006, è l’autore del romanzo Neve (2002), ed è anche il narratore della storia; nei panni di se stesso, Pamuk ripercorre le vicende legate all’immaginario amico Ka, ormai scomparso, per poterne scrivere un libro, questo libro.



Romanzo dai connotati tragici e malinconici, Neve affronta temi complessi accompagnati da atmosfere oniriche e sonnolente, alternate ad una caotica degenerazione di eventi quanto mai dispersiva.
È un romanzo introspettivo dal contesto multi-attivo; tutte le vicende politiche cui assistiamo durante il soggiorno di Ka, sono una semplice mise ensemble per il protagonista.


Kars: la povertà e il provincialismo
Dopo un lungo periodo all’estero, Ka, poeta turco esule in Germania, torna a Istanbul per i funerali della madre. Qui, venuto a conoscenza del divorzio tra Muhtar e la bella Ipek, sua compagna di studi ai tempi dell’università, decide di andare a Kars, una piccola cittadina di confine, con la scusa di scrivere un articolo sulle imminenti elezioni comunali e sui suicidi di alcune ragazze turche che sembrano connessi al divieto di portare il velo nelle università.
Una volta a Kars, Ka, visto come un importante personaggio del mondo turco in occidente, viene accolto ovunque a braccia aperte; tutti lo vogliono dalla loro parte, tutti vogliono farsi conoscere, tutti vogliono la sua attenzione: Serdar, il direttore del giornale locale, Muhtar, il leader del partito musulmano, lo sceicco Effendi, profeta di un Islam pacifico, Blu, fuggiasco integralista.
Ma l’unica cosa che interessa Ka è Ipek, la donna che crede di aver sognato per tutti quegli anni, e della quale si innamora immediatamente. Neanche il colpo di stato che si verifica quella sera, al Teatro Nazionale da parte del gruppo teatrale di Sunay, intacca la felicità di Ka, il cui unico scopo è diventato quello di portare con sé Ipek a Francoforte, utopica isola della loro felicità.
Contro la sua volontà, Ka si ritrova coinvolto nel caos politico della cittadina: da una parte c’è Sunay, attore megalomane che si vanta del suo piccolo golpe come di un primo passo verso il progresso e l’occidentalizzazione del popolo ignorante e retrogrado di Kars, dall’altra c’è Blu, che coinvolge Ka nella sua lotta all’occidente.
Ka accetta suo malgrado la veste di mediatore affidatagli coattamente in questo gioco al potere, al quale però non presta minimamente caso perché perennemente incentrato sul suo amore per Ipek.
Ma quando scopre che la donna è stata l’amante di Blu, ruolo adesso ricoperto da Kadife, giovane sorella di Ipek, Ka si ritrova coinvolto in una spirale di odio e gelosia che finisce per distruggere tutto ciò che ha faticosamente costruito a Kars.


Kar: il silenzio, la poesia e Allah
” Il silenzio della neve, pensava l’uomo seduto dietro all’autista del pullman. Se questo fosse stato l’inizio di una poesia, avrebbe chiamato « silenzio della neve » ciò che sentiva dentro. “
La neve che scende, lenta, inesorabile, silenziosa, persistente, è l’unica vera costante di questo romanzo, non a caso intitolato Neve ( Kar, in turco ).
È la neve che ispira a Ka la sua prima poesia dopo anni di vuoto; è la neve che, bloccando le strade, permette a Ka di vivere i tre giorni più intensi della sua vita; è la neve che gioca da condicio sine qua non, la condizione grazie alla quale viene messo in scena il piccolo golpe di Kars.
La neve è la coprotagonista, prepotente, di questa storia.


La neve, il cui incessante fluire viene continuamente ricordato al lettore, detiene un potere mistico, a tratti salvifico: il suo candore e la sua pace lasciano ispirato Ka, che di getto scrive la prima delle diciannove poesie che comporrà in due giorni nella cittadina turca. La neve svela i segreti della vita a Ka.

Ma da dove viene il mistero della neve e della poesia? Forse è tutto merito di Allah.
La neve rende Ka partecipe alle sofferenze del suo popolo, la sua miseria e povertà, ma anche alla speranza, al credo comune che ci sia un qualcosa di superiore alle loro vite che li guida, un dio benefico nonostante tutto.
Ka è ateo, ma durante il suo soggiorno a Kars, grazie alla neve, al suo bisogno disperato dell’amore di Ipek, contagiato dal desiderio di complicità in una fede genuina ed ingenua, vivrà attimi di patetismo religioso, subito poi accantonato.


Ka: solitudine e identità
Ka è un personaggio incerto, indeciso, a tratti patetico: una sorta di sognatore dostoevskijano dai lineamenti dell’inetto di Svevo. Ka vive di ricordi sconnessi, ma soprattutto di sensazioni instabili, dettate dal momento. In ogni ambiente in cui viene coinvolto, si lascia trascinare dall’entusiasmo che lo circonda, come in balia del mare, sospinto da correnti opposte: ora, nella cerchia dello sceicco Effendi, si sente contagiato dalla bellezza e dall’amore per Allah; poi, nel covo di Sunay, dopo un’eclatante apologia sul potere salvifico dell’arte, si sente affascinato dalla, se pur a tratti ridicola, supremazia politica dell’attore e prova ammirazione per sua la figura carismatica.

Ma perché Ka è così incerto sulla sua identità? Da cosa deriva questo bisogno di conformarsi agli altri? Da un’esasperante solitudine che lo attanaglia costantemente.
Nonostante i suoi sforzi di sentirsi parte di una comunità, di qualsiasi tipo essa si tratti, Ka non riesce a superare quella naturale distanza che separa gli esseri umani. Ka si sente solo, perduto. Il compromesso non è possibile, neanche tramite l’amore.


Il suo rapporto con l’amore è infatti complicato; da un lato esso rappresenta la fonte della felicità estrema, è la chimera da realizzare a tutti i costi, l’unica potenza in grado di salvare dalla solitudine. Dall’altro è un sentimento oscuro proprio in virtù di questa sua potenza: alle gioie dell’amore si affiancano i dubbi dell’insicurezza, della paura e della gelosia.
“Che cos’è che distingue il dolore dell’attesa dall’amore?”
L’amore per Ka è qualcosa cui aggrapparsi disperatamente, senza il quale la vita resta vuota nella sua miseria e solitudine.

Conclusioni
Con questo personaggio stralunato, Orhan Pamuk vorrebbe gettare le basi per un’analisi sull’identità, sulle problematiche della cultura del mondo turco di ieri e di oggi, sulle differenze tra Europa e Islam, tra religione e stato, senza però arrivare a una sintesi.
Più che un confronto, si tratta di un vero e proprio scontro tra oriente e occidente, in quanto le parti risultano impari e affatto inclini al confronto; i turchi raffigurati da Pamuk sono costantemente divisi tra l’orgoglio della propria dignità culturale ed il senso di inadeguatezza che da esso ne deriva.
Come se il sinonimo di ‘moderno’ fosse automaticamente ‘Europa’, ecco che da un lato vi sono i turchi che vogliono modernizzarsi per non doversi più sentire inferiori, dall’altro i turchi che vogliono restare ben saldi alle loro radici, aggrappandosi caparbiamente a questa “inferiorità” che pensano derivi dal mondo occidentale.
Una cosa è certa, in Neve i pregiudizi non mancano. Per questo ho parlato di scontro. I personaggi di Kars parlano degli europei come di persone che si credono superiori nei loro confronti, senza in realtà aver mai messo piede in Europa. Come sotto una cappa di paranoia e vergogna, vivono contro o in virtù del pensiero europeo nei loro confronti.


Altro tema mal gestito da Pamuk è la questione del velo. La vicenda si apre proprio su questo tema; a seguito della “modernizzazione” e laicizzazione dello stato turco, viene vietato alle ragazze col velo di frequentare l’università. Alcune si suicidano, mettendo in evidenza il paradosso che deriva tra la scelta di peccare scoprendosi la testa oppure suicidandosi. A seguito di questo palese controsenso si cercano le ragioni più recondite di questi suicidi; le ragazze musulmane si uccidono perché rifiutano di togliersi il chador? Perché vengono costrette dalle famiglie a sposare uomini che non amano? Perché vengono maltrattate e picchiate dai loro mariti? Perché soffrono, sono infelici? O come ultimo atto di prevaricazione nei confronti della cultura maschilista dell’Islam? Queste domande restano senza risposta perché l’autore decide di soffermarsi su Ka, solo su Ka.
Peccato, perché poteva essere un argomento molto interessante, così come i molti altri che Pamuk lancia al lettore, ma che alla fine decide di non sviluppare a dovere.


I numerosi avvenimenti che si succedono nel giro di poche ore, condensati tra le meditazioni personali di Ka, i molteplici spunti di riflessione a cui non viene lasciato spazio, e lo stile estremamente denso di Pamuk, rendono questo romanzo non poco complesso, a tratti pesante e molto lento.
Si può fare decisamente di meglio. 


Voto: ★★