lunedì 22 settembre 2014

1933. Un anno terribile #Lunedì narrativa

Come in molti ambiti, anche l’arte dello scrivere conosce varie scuole di pensiero; una di queste si riassume nel conciso asserto “scrivi di ciò che sai”, e John Fante si rifà sicuramente a questa tesi. Praticamente tutte le opere di Fante sono rielaborazioni autobiografiche dell’autore italo-americano, e 1933. Un anno terribile non fa eccezione.

Scritto negli anni ’50, ma pubblicato postumo nel 1985, 1933. Un anno terribile è un breve romanzo di denuncia simbolica e di un possibile riscatto, in cui lo scrittore rievoca i luoghi e le condizioni della sua infanzia.
Dominic Molise, diciassettenne di origini italiane, vive nella povertà di un’America in crisi, infingarda e disillusa; il sogno americano, che ha spinto i suoi avi a lasciare l’Abruzzo per una terra di promesse, si è concretizzato in un’amara delusione per la famiglia Molise. Il padre di Dominic, muratore disoccupato, provvede alla sua famiglia giocando a biliardo su scommessa, in attesa che il figlio, finita la scuola, si metta a lavorare con lui.
Ma Dominic non ha intenzione di seguire le orme paterne, ha ancora una speranza di farcela grazie al Braccio; lanciatore eccezionale, Dominic sogna, anzi sa, che grazie al suo braccio sinistro riuscirà a lasciare la misera cittadina di Roper per entrare a giocare da professionista in una squadra di baseball, magari con i Cubs.
Con il suo migliore amico Kenny, Dominic si allena tutti i giorni nello scantinato del padre dell’amico, dove i due ragazzi, tra un lancio e l’altro, fantasticano sul loro roseo futuro nel baseball, finché a Kenny viene un’idea: perché non anticipare i tempi e partire subito per la calda California? Dopo un’iniziale titubanza, Dominic accetta, ma c’è un grosso problema da risolvere: trovare i soldi per finanziare il viaggio.
Il desiderio di partire diventa un’urgenza. Andarsene, subito, o mai più.


American dream, Joyce e la teodicea.
Il perno centrale del romanzo è il sogno; il sogno come forma di evasione, il sogno come forma di rivincita, il sogno come speranza, come ultima risorsa per continuare a vivere.
“Sognatori, eravamo una casa piena di sognatori. La nonna sognava la sua casa nel lontano Abruzzo. Mio padre sognava di essere senza più debiti e di fare il muratore a fianco di suo figlio. Mia madre sognava la sua ricompensa celeste con un marito allegro che non scappava via. Mia sorella Clara sognava di fare la suora, e il mio fratellino Frederick non vedeva l’ora di crescere per diventare un cowboy. Se chiudevo gli occhi riuscivo a sentire il ronzio dei sogni per tutta la casa, poi mi addormentai.”
Un’America fatta di tanti piccoli sogni che uno ad uno vengono spezzati. O forse no?

Dominic proviene da una famiglia di poveri immigrati e l’unico futuro che hanno da offrirgli è quello di intraprendere la sterile carriera di muratore, che il ragazzo però non ama. Le uniche passioni nella vita di Dominic sono il baseball e Dorothy Parrish.
Il baseball è l’unica cosa che appaga Dominic; il Braccio, il suo Braccio, è la promessa di un futuro migliore e ricco di gloria; il Braccio non è un semplice arto, ma la chiave del suo successo, un essere a se stante, con una sua volontà. Vi è una vera e propria umanizzazione del Braccio: Dominic gli parla, lo consola quando freme od è triste, se ne prende cura come di un neonato, spalmandolo costantemente di balsamo Sloan. Il Braccio parla e dice a Dominic di non disperare.


In questo altalenarsi di sogni e disillusioni esistenziali, si inserisce la parentesi amorosa: l’attrazione morbosa di Dominic per Dorothy, la sorella di Kenny. Bella, universitaria e di famiglia benestante, Dorothy è il sogno proibito di Dominic; regina glaciale, venerata e idealizzata, Dominic cerca disperatamente un contatto con lei, e quando finalmente l’ottiene, tutto il suo ardore adolescenziale esplode in una disperata libido che segna definitivamente la fine con l’agognata Dorothy.

Altro elemento che ho trovato interessante è il richiamo a James Joyce: quando Dominic decide di rubare la betoniera del padre per poter finanziare il viaggio in California è costretto a passare per il cimitero, proprio di fronte alla lapide del nonno. A questo punto succede qualcosa: una paralisi, in puro stile Joyce; così come Eveline, in Gente di Dublino, non ha il coraggio di affrontare il fantasma della madre, Dominic non ha la risolutezza necessaria a sostenere gli ammonimenti della coscienza di fronte alle conseguenze delle sue azioni, cioè passare con la refurtiva sulla tomba del nonno.

Infine, parliamo della componente teologica che emerge soprattutto nella prima parte, seppur in modo soffuso e poco invasivo, del romanzo.
Il contesto in cui cresce il protagonista è un ambiente estremamente religioso; in casa Molise regna il fervore cattolico e Dominic frequenta una scuola retta da suore.
Il ragazzo si interroga sulla sua condizione di povertà, fantastica sulla morte, spesso rivolgendosi direttamente a Dio. Perché Dio ha fatto nascere Dominic in una famiglia povera, se poi non potrà cambiare le cose? Perché Dio avrebbe favorito quest’ingiustizia? Dev’essere per questo che Dio l’ha dotato del Braccio, per far emergere Dominic dalla sua situazione di miseria. D’altronde anche altri grandi del baseball sono partiti da famiglie povere.
Predestinazione.
Come se tutto fosse permeato di un ermetismo divino, Dominic è afflitto dai dubbi, ma è altresì fiducioso sul suo futuro, perché lui ha il Braccio, e il Braccio gli è stato donato da Dio.
Una mentalità chiusa nel suo involucro religioso che riporta la situazione di Dominic alla questione sulla teodicea, al passo di Giobbe, al cercare una spiegazione razionale di fronte ad una condizione di sofferenza pressoché ingiusta, come la ristrettezza economica del protagonista.

“Ero figlio di un muratore disoccupato da cinque mesi. Non avendo un cappotto, mi mettevo tre golf, e mia madre aveva già cominciato una serie di novene per il vestito di cui avrei avuto bisogno a giugno per l’esame.
Signore, dissi, perché in quei giorni ero un credente che parlava con franchezza con il suo Dio: Signore, che sta succedendo? È questo quello che vuoi? È per questo che mi hai messo sulla terra? Non ho chiesto io di nascere. […]
è questo il premio per chi cerca di essere un buon cristiano, per dodici anni di catechismo e quattro di latino? […]
Stai giocando con me? Ti sono sfuggite le cose di mano?Hai perso il controllo? Lucifero ha riguadagnato potere? Sii onesto con me, perché sono sempre preoccupato. Dammi un segno. Vale la pena di vivere? Le cose si aggiusteranno o no?”
Conclusioni
Il finale è un punto interrogativo, aperto, sospeso sulle possibilità del protagonista di fronte al suo futuro. Come andrà a finire? Non si sa, ma abbiamo tutti gli elementi per delineare un possibile finale; sta al proprio gusto e alla propria chiave interpretativa decidere la direzione da seguire. Io ho la mia.
Oppure possiamo anche lasciare tutto così com’è. 


Voto: ★★★

mercoledì 3 settembre 2014

Ragazzo negro #La storia del mercoledì

Richard è un bambino di 4 anni, di colore, nato a Natchez, Mississippi, nei primi anni del Novecento. Il suo primo scontro con il mondo è dettato dal silenzio; così, quando sua madre gli intima di star zitto per via della nonna malata, Richard cerca un modo per dar adito alla sua energia di bambino, dando accidentalmente fuoco alla casa in cui vive. Un inizio violento che presagisce una costante della sua vita: la ribellione al silenzio, in tutte le sue forme.
Scritto nel 1945, Ragazzo negro è il romanzo autobiografico di Richard Wright, in cui il percorso dall’infanzia alla giovinezza sembra perennemente scandito dagli echi del silenzio, della fame e della violenza.




I primi anni di vita di Richard sono segnati da esperienze drammatiche: giunto a Memphis con la famiglia, il bambino subirà l’abbandono del padre, patirà la fame nera e disperata, diventerà un alcolista all’età di sei anni, imparerà le sue prime parole oscene e finirà in orfanotrofio.
Trovati i soldi per lasciare la desolazione di Memphis, Richard e la sua famiglia faranno una breve sosta nella casa dei nonni materni a Jackson, prima di raggiungere una zia nell’Arkansas.
Dopo una prima infanzia vissuta sballottato da un posto all’altro, le cose sembrano andare un po’ meglio, finché la madre di Richard non viene colpita da una paralisi e sono così costretti a tornare dai nonni.
La casa di Jackson è dominata da una ferrea disciplina religiosa che tuttavia non riuscirà mai a conquistare il bambino, ma sarà causa di forti scontri tra Richard e la nonna.


Dopo anni passati da una casa all’altra, è solo durante l’adolescenza che Richard potrà frequentare la scuola in modo assiduo, dimostrandosi un ragazzo capace e pieno di curiosità. Nel frattempo inizia un’innumerevole serie di lavoretti per potersi guadagnare qualcosa, e così fa il primo incontro diretto con la società bianca. Richard non riesce a capire le ingiustizie imposte dai bianchi e, sebbene ne sia terrorizzato, non riuscirà mai a piegarsi ai dettami della cultura nera stabilita dai bianchi; il ruolo che i bianchi hanno scelto per lui e per i suoi simili, un ruolo di sottomissione e perenne umiliazione, lo allontanerà anche dalla sua gente che, al contrario di lui, decide di sottostare impotente alla legge dei bianchi.

La vita di Richard è segnata dalla solitudine: relegato nel mondo dei neri, la sua costante volontà di ergersi ad essere umano lo rende un emarginato nella sua stessa comunità, incapace di comprendere le motivazioni che lo sospingono ad elevarsi come essere a sé. Il mondo nero è fatto di soprusi e carognate, ma Richard continuerà a ribellarsi.
Alla solitudine si aggiunge il perenne peso del silenzio: zittito dai bianchi, zittito dagli altri neri, zittito dalla sua stessa famiglia, Richard non trova mai una risposta dagli altri, se non attraverso le sue stesse elucubrazioni. Richard è un bambino curioso, affamato di sapere, ma nessuno sembra voler soddisfare questo suo bisogno. Abbandonato a se stesso, Richard trova le risposte che cerca nei libri; di qualsiasi genere essi siano, sono i libri la chiave per scoprire il mondo, in tutte le sue forme più recondite. Grazie alla lettura, Richard scopre anche il potere delle parole, un potere enorme, apparentemente innocente, ma in grado di ferire; un’arma raffinata e tagliente che il futuro scrittore afroamericano userà per uscire finalmente dal silenzio che lo ha oppresso per tutta la vita.


Romanzo dai tratti duri, la violenza che ne emerge è sconcertante. La supremazia bianca regna sovrana e i neri esercitano su se stessi la repressione voluta dai bianchi; qualsiasi atto di sicurezza da parte di un nero, manda in crisi la coscienza bianca, minando la sua legittimazione a tali crudeltà. Dall’altra parte, i neri accettano mestamente questa condizione, sentendosi così avallati nel compiere atti a discapito della morale bianca: se è il bianco che mi dà lavoro ma mi paga una miseria e mi maltratta, io nero posso allora vendicarmi rubando, truffando l’uomo bianco. E tutto ciò ai bianchi sta bene, perché è un atteggiamento rafforzativo al loro razzismo: che rispetto si può avere per i neri se rubano?
Un circolo vizioso, dunque, che mina costantemente il rapporto tra bianchi e neri.


Richard Wright dice NO a tutto questo, vuole spezzare questa catena di ricatti e rivendicazioni macchinate dall’odio razziale, perché vuole sentirsi libero di vivere con la sua esistenza con la sua morale, con le sue idee e con tutto il suo essere.
L’alternativa per una vita migliore sembra, così, essere il nord, l’utopia del benessere nero.


Conclusioni
Ragazzo negro è la storia di un uomo che ha deciso di essere padrone del suo destino, andando oltre i limiti del colore della sua pelle, nel bene e nel male. Non solo; è la testimonianza delle penose e difficili condizioni che gli afroamericani hanno dovuto affrontare per ottenere il loro posto nel mondo.

Voto: ★★★★